La sentenza “esemplare” nei confronti dell’ex sindaco di Riace: una sfilza di reati senza alcun arricchimento. Ma tanto basta a liquidare un modello di accoglienza

Tredici anni. Nell’Italia degli impuniti a Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, in corsa come candidato al fianco di Luigi De Magistris per la Regione Calabria, riservano una pena che supera la media delle condanne effettivamente inflitte per l’omicidio volontario. Per via giudiziaria si chiude davanti al tribunale di Reggio Calabria, solo il primo round di una battaglia giocata perlopiù sul terreno politico ma che ha visto l’ex amministratore arrestato e allontanato da Riace per una sfilza di contestazioni che vanno dall’associazione per delinquere all’inevitabile abuso d’ufficio.

 

Neppure il pubblico ministero, che pure aveva chiesto 7 anni, ha potuto adombrare il sospetto che dei presunti soldi spariti, quantificati in 5 milioni di euro, Lucano abbia intascato un euro. E la sua vita, scandagliata e rivoltata come un calzino è lì a dimostrarlo. Le intercettazioni, portate a sostegno di un’accusa enorme, dimostrerebbero, ha sostenuto il pm, che quel suo darsi da fare per accogliere e integrare migranti, per farli lavorare nelle cooperative, per mettere in piedi quel modello Riace che sono venuti a studiare dall’estero ha avuto una contropartita immateriale. Ovvero il consenso.

 

Niente soldi ma solo l’approvazione della sua gente che lo ha eletto per tre volte. Nel paese che non riesce a provare il reato di scambio politico mafioso, avendone fatto un archetipo giudiziario cervellotico, al limite dell’impossibile, Lucano paga forse qualche svista e quale che ingenuità, leggerezze amministrative di chi non ha troppa dimestichezza con le tortuose vie del diritto e non certo imbrogli da grande concussore.

Il caso
Mimmo Lucano condannato a tredici anni e due mesi. Assassini e tentati stragisti prendono meno
30/9/2021

 

Se è successo davvero, è stato solo per tenere in vita il sistema che ne ha fatto un perfetto antagonista dei tronfi sceriffi anti-immigrati alla Matteo Salvini. Che non a caso si è lanciato sullo sgomento di Lucano, credendo di rifarsi dei sinistri contraccolpi del caso Morisi: «Paladino dei radical chic», «Condannato e candidato dalla sinistra».

 

La “Bestia”, del resto, è solo ferita, capace com’è di trascinarsi dietro in un regolamento di conti postumo sul tema dei migranti altri esponenti del centrodestra. Maurizio Gasparri tuona contro la Rai, rea di aver dedicato a Lucano e Riace un docufilm «senza attendere la sentenza». Ovvero esattamente quello che sembra essere lo sport più praticato dai commentatori con titolo parlamentare che impazzano nei talk show.

 

Come sempre, le motivazioni diranno come si sia arrivati quasi al raddoppio delle pretese dell’accusa e in che modo i giudici abbiano ritenute fondate le contestazioni servite a demolire quel che ha rappresentato Riace, mentre il Paese scivolava dall’accoglienza ai porti chiusi. Dalle missioni umanitarie ai barconi lasciati affondare. Dalle mani tese alle gabbie per i «clandestini».

 

E un sindaco filoleghista prendeva il posto di Lucano incaricandosi di cancellare la memoria. In una Calabria che fino a una manciata di anni fa non processava per mafia neppure la ‘ndrangheta, resta l’idea che una sentenza spropositata nella misurazione del presunto danno sia l’ennesimo mattone di un muro contrabbandato per confine.