Terapie palliative all’anno zero. Assistenza domiciliare quasi inesistente. L’accesso agli hospice pediatrici è un miraggio: così la legge viene tradita

Lavinia è nata alle 10,44 di un caldissimo venerdì mattina. Aveva deciso di urlare in una sala parto il 12 agosto, mentre la temperatura fuori arrivava a trenta gradi, le strade erano vuote e tutti erano partiti per le vacanze. Ma Lavinia era così, prendeva decisioni difficili e aveva sempre la verità tra le dita. La sua migliore amica si chiama Vittoria e con lei era tutto più semplice. Lavinia se ne è andata a nove anni in una giornata caldissima. Anche per quel giorno era agosto, a Lavinia piacevano l’aria aperta, il caldo e il mare. Erano con lei, mamma Federica e papà Matteo.

 

Ci sono vite per cui i mesi sono un vento leggero che trascina la quotidianità. Per altri il vento sferza forte, a mille nodi al giorno. Così forte che la barca a vela su cui uno sale arriva prima degli altri all’approdo. E allora i genitori che sono con loro sulla barchetta devono capire come domare le onde, come evitare il mal di mare e come vivere quell’avventura. L’importante sono anche i mozzi. Se i mozzi non si trovano la barchetta arriva prima e arriva male. I mozzi sono dottori, psicologi, infermieri, personale specializzato che ti insegna come gestire una crisi respiratoria e ti fa un corso intensivo di rianimazione. Sono quelli che ti permettono di portare tuo figlio a scuola e di avere degli amici. Sono coloro che ti insegnano il momento che arriva, quello in cui le parole sono finite, e bisogna dirsi ciao, perché andare oltre sarebbe un accanimento doloroso.

 

Lavinia era una dei bambini, in Italia ogni anno sono tra i 13 e i 15 mila, che hanno bisogno di cure palliative specialistiche e cioè di quell’insieme di cure, non solo farmacologiche, che hanno lo scopo di migliorare la qualità della vita sia del malato che della sua famiglia. Di questi solo il 5-10 per cento riesce ad averne accesso. I bambini che ne hanno bisogno presentano malattie diverse ed eterogenee: patologie neurologiche, respiratorie, cardiache, oncologiche, genetiche, infettive, post traumatiche. Due i fattori comuni di tutte queste situazioni: la mancanza di una terapia che possa portare a guarigione il piccolo paziente e l’estrema quantità e complessità di problemi che si innescano: clinici, sociali e organizzativi. Tutti quindi necessitano di cure specifiche e di un supporto continuo.

 

Ma soprattutto hanno bisogno di un tempo sereno. Spesso le famiglie non sanno dove andare, perché non sempre questo diritto viene loro riconosciuto. In Italia per tutti i bambini che hanno malattie gravi, con una diagnosi infausta e che necessitano di cure palliative pediatriche c’è una legge che, per questo ambito sanitario, è fra le più avanzate a livello mondiale. La legge 38/2010, approvata 12 anni fa, presenta però ancora per l’area pediatrica un gap applicativo importante, prevede infatti in ogni regione una Rete territoriale assistenziale (Rete di cure palliative pediatriche e terapia del dolore) che porti l’assistenza e le cure a domicilio dei piccoli pazienti, con strumenti e risorse umane dedicate ed adeguate; prevede almeno un hospice pediatrico in ogni regione, ma ancora oggi non tutte le Regioni sono riuscite a organizzarsi per dare queste risposte. Le cause sono la mancanza di risorse dedicate e la scarsa attenzione al problema.

 

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Ha sette anni, ha pregato i genitori di chiamare la dottoressa che da tempo lo assiste. È arrivata in camera sua. Lui è sul letto. Lo sguardo è pacato: «Dottoressa ho preso una decisione importante». Lei lo guarda e gli chiede: «Quale decisione importante alle 8 del mattino?». Lui: «Ho deciso di regalarle i miei giochi perché a me non servono più».

Sono le 18 di un venerdì sera, la dottoressa Franca Benini è ancora a casa di uno dei suoi 208 piccoli assistiti: «Mi dispiace ma adesso non ho tempo, devo finire questa visita». Dopo due ore appare nuovamente: «Domani possiamo fare solo dopo le 13, devo tornare nuovamente in questa casa, la situazione si è complicata e non so cosa accadrà». La dottoressa Benini gestisce l’hospice pediatrico di Padova, è considerata da tutti gli ospedali italiani il faro nelle cure palliative infantili. Ha dedicato la sua esistenza a questo impegno e se uno le domanda cosa realmente sia un hospice, lei risponde tecnicamente: «È una struttura ad altissima complessità che permette al bambino e alla famiglia di vivere una storia di malattia inguaribile nella migliore condizione possibile. È una casa con la capacità di rendere una situazione difficile, molto normale». Eppure parlare di cure palliative è inammissibile, soprattutto se quelle cure riguardano i bambini. Per la dottoressa c’è una spiegazione: «Mi sono spesso chiesta come mai c’è questa sorta di tabù. Alla fine credo che la spiegazione sia che quando pensiamo ai bambini li vogliamo pensare sani, belli senza problemi. La sofferenza e la morte per loro non può esistere e se esiste cerchiamo di evitarne il pensiero. Ma anche i bambini soffrono, si possano ammalare e anche morire. E quando questo accade si innalzano dei muri: molta emotività, molte parole, talvolta pianti ma poi chi non è coinvolto trova la possibilità di dimenticare velocemente». Ha la voce di chi spiega la vita attraverso la morte. Un filo unico che non si interrompe mai: «In molti credono che questi bambini non siano consapevoli della loro situazione, ma oltre ai dottori, hanno bisogno di altro, di socialità, di vita buona, di risposta alle loro domande difficili. Hanno la necessità di capire e di partecipare». Alcuni di loro le hanno chiesto: «Dottoressa, ma come mai è successo proprio a me?». Le risposte non sempre arrivano, ma per Franca Benini il significato è semplice: «Ti insegnano l’importanza del tempo. Per loro è poco e per questo è indispensabile che quel poco tempo sia vissuto nel migliore modo possibile insieme alle loro famiglie». Un tempo felice che può portarti anche a dire: «Non dovete piangere mamma e papà perché sono io ad andare via, mica voi». Alcuni fanno testamento, lasciano i propri giochi a chi gli è più caro. Ha dieci anni, la sorellina di otto l’ha assistito per tutta la malattia. Una complicità perfetta. «Allora ti lascio i miei album Panini e anche tutti i doppioni delle figurine, ma mi raccomando di finire tutto», le ha detto un giorno. Si sono salutati così, con alcune caselle bianche da riempire. Ci sono poi quei genitori che non sono assistiti, che non hanno la fortuna di incrociare medici che sappiamo preparare loro all’inevitabilità della morte. Ha sette anni, parla poco, la madre continua a sognare il suo compleanno e gli spiega come festeggerà con gli amici. Lui imperterrito in un foglio bianco disegna gli angeli e il paradiso, ci crede e quando la mamma esce dalla stanza chiede alle volontarie: «Ma questo paradiso come è?». Sente che il tempo rimasto è poco e vuole capire se sarà in compagnia degli angeli in attesa che arrivi anche la sua mamma. Alcuni di loro chiedono: «Ma non è che rimango solo e al buio?». E allora ci sono i medici, i volontari, gli psicologi che tranquillizzano, parlano e spiegano. Magari non sanno la verità, magari saranno fantasie. Ma poco importa.

Benedetta Fantugini ha perso la sua Marta a nove mesi. Un giorno è andata a prenderla, dormiva nel suo lettino, ha provata a svegliarla, ma Marta dormiva di un sonno profondo. Dopo quattro giorni è morta in terapia intensiva. Benedetta ha detto, raccontando della sua Marta: «Figurati che quando è morta mia figlia sono stata lasciata sola anche da alcuni amici, forse non volevano vedere quel dolore. È difficile stare accanto a un genitore che ha perso un figlio, hai paura che possa accadere anche a te». Da quel giorno è una presenza costante all’ospedale Meyer di Firenze: «Se dicessi che lo faccio per gli altri sarei bugiarda, lo faccio per me. Credo che sia stato l’unico modo per riuscire a trovare un senso a quello che è successo». Aiuta le famiglie, le accompagna e cerca di organizzare una rete assistenziale per tutti quei bambini con una diagnosi infausta: «In Italia siamo anni indietro». Adesso Benedetta si è divisa. Passa i giorni tra l’ospedale pediatrico Meyer e le aziende private: «Cerco soldi per costruire un hospice qui a Firenze insieme al Meyer, abbiamo tutti i permessi. L’unica cosa che ci manca sono i soldi, per adesso abbiamo raccolto 600mila euro, dobbiamo arrivare a due milioni, ma nell’estate del 2023 sarà pronto». Le uniche regioni ad averne uno sono: Veneto; Liguria; Piemonte; Lombardia; Campania e Basilicata. In alcune come Emilia Romagna, Lazio e Toscana, Friuli, Trentino Alto Adige ci sono dei progetti. In altre nulla. Ed è quel nulla che dovremmo riempire. Per amore e umanità e per legge.

 

L’intervento
“Caro Pnrr mi rivolgo a te, investi nella salute dei ragazzi e dei bambini”
24/1/2022

La mamma di Lavinia, Federica Toffanin insieme al papà Matteo Zandali, ha deciso di creare una pagina Facebook che si chiama “In cammino per Lavinia”. «Ci siamo resi conto che tanti genitori sono abbandonati. Ci chiamano dalla Puglia, dalla Sardegna, ma anche dal Molise per chiederci aiuto, spiegazioni. In molte regioni gli hospice non esistono e neanche cure assistenziali a domicilio che sono fondamentali. Tanti bambini, insieme alle loro famiglie, sono lasciati soli», spiegano.

Lavinia è morta nel 2020, Federica e Matteo parlano di lei con un sorriso: «Avevamo 28 e 30 anni quando abbiamo deciso di avere un figlio, ci sentivamo con la vita in tasca. Dopo un mese e mezzo ci hanno detto che qualcosa non andava, per avere una diagnosi abbiamo atteso che avesse un anno e mezzo: una malattia genetica rarissima, in Italia ci sono solo dieci casi. Una prospettiva di vita che nella più ottimistica delle ipotesi arrivava a dieci anni». Dopo la diagnosi è iniziata una via crucis negli ospedali italiani, nonostante la soluzione fosse a 40 chilometri da casa. Al Gaslini di Genova la professoressa Nadia di Rocco chiede: «Nessuno vi ha mai detto che che all’ospedale di Padova c’è l’hospice più importante d’Italia? A pochissimi chilometri da casa vostra?». No, nessuno, neanche il loro pediatra di Venezia li aveva informati di questa possibilità. Racconta Federica: «Lavinia andava in campeggio con le sue bombole dell’ossigeno. Era una bambina felice. Ha vissuto in maniera piena e straordinaria». Lavinia appartiene a quel 5-10 per cento di bambini che ha avuto il privilegio di avere cure assistenziali e di poter accedere a un hospice pediatrico. Ha salutato mamma e papà a nove anni. Adesso i suoi genitori lottano per aiutare chi si trova nella stessa situazione: «Tutti noi genitori che viviamo situazioni simili abbiamo una percezione del tempo diversa, sappiamo che è poco e il nostro unico desiderio è vedere i nostri figli felici prima che ci dicano arrivederci». Lavinia ha avuto la fortuna di essere felice prima di quell’arrivederci. Ci sono ancora troppi bambini che invece ogni giorno vivono con questo diritto negato. E meriterebbero molto di più, fosse anche soltanto qualche risorsa nel Pnrr.