L’auto di servizio avanza lenta sui sampietrini, il lampeggiante rigorosamente spento, i vetri seriosamente oscurati, e poi accosta al civico 4 di piazza della Enciclopedia italiana, palazzo romano del XVI secolo appartenuto alla famiglia Mattei, ramo Paganica, sede del prestigioso istituto Treccani.
È sera, i lampioni di luce arancio illuminano il vuoto. Si apre lo sportello destro, che quasi sfiora il portale in marmo. L’illustre ospite - un ministro del governo o un esponente di partito - s’infila nel cortile a doppio ordine di logge. Gli uffici hanno chiuso da ore, le scrivanie ingombre di fogli e libri, la vigilanza controlla le telecamere. L’illustre ospite attraversa l’ingresso secondario, si sente soltanto il suo scalpicciare, affronta la scalinata con i gradini bassi, fregi di stemmi, aquile, maschere, le sale decorate dai fratelli Zuccari.
E poi arriva allo studio, la lampada che dà sulla scrivania, le finestre architravate ben serrate, le pareti di manuali, raccolte, volumi, gli occhiali mai troppo aderenti al naso, lo sguardo appuntito: il professore Giuliano Amato, il più volte ministro, il due volte premier, il socialista con amnesie craxiane, il fine accademico avvezzo agli incarichi, candidato alla presidenza della Repubblica, svolge i suoi incontri più riservati.
Qui alla Treccani, che ha presieduto per cinque anni e che presiede ancora da emerito, in compagnia dell’attuale direttore generale Massimo Bray, il 28 gennaio di sette anni fa attese paziente una chiamata di Matteo Renzi per il Colle, che non arrivò e provocò invece la rottura del patto del Nazareno con Silvio Berlusconi dopo la scelta di Sergio Mattarella. E sempre qui, negli ultimi due mesi, Amato ha ricevuto rappresentanti del governo e dei partiti, di ogni schieramento, formazione, estrazione: leghisti, forzisti, pentastellati, democratici, il ministro Luigi Di Maio, il ministro Andrea Orlando, il segretario dem Enrico Letta, intermediari, sensali, assistenti.
In questo modo, con rito strettamente romano e non propriamente giurista, popolare fra gli eletti meno fra gli elettori, il professor Amato ha avvicinato la politica per capire che impegni prendere per la quarta settimana di gennaio. Se da lunedì 24 aspettarsi la complicata nomina al Quirinale - rimandata e non più rimandabile per gli 84 anni da compiere - oppure celebrare da venerdì 28 lo scontato mandato di presidente della Corte costituzionale prima della definitiva pensione.
Amato non ha né particolari oppositori né particolari estimatori, è la terza scelta se non si avvera il trasloco di Mario Draghi da Palazzo Chigi o la riconferma a tempo di Sergio Mattarella. Fu ritirato al ballottaggio proprio con Mattarella, certamente fu in corsa anche quando toccò a Giorgio Napolitano e pure a Carlo Azeglio Ciampi.
Amato è un nome ricorrente che per altrui indugi non si è mai affermato al Colle. Stavolta il professore si prepara con prudenza all’eventuale ennesima delusione. Nessuno esclude che possa accadere. Nessuno si muove affinché possa accadere. Lo fa Amato per sé. Con questi colloqui discreti e suggestivi. Che ricordano l'altro socialista Sandro Pertini, il partigiano, che in vestaglia accoglieva a casa il democristiano Giulio Andreotti per le trattative su Giovanni Gronchi e spediva altrove la moglie Carla. Perché un segreto è tale quando lo sanno in due. Al terzo lo si legge sui giornali.