Il reclutamento imposto dallo Zar ha riacceso la rabbia della piazza in Russia: “Non siamo carne da cannone”. E per gli arrestati e fermati come ritorsione scatta l’immediato arruolamento forzato

«Migliaia di uomini russi – i nostri padri, i nostri fratelli, i nostri mariti – saranno gettati nel tritacarne della guerra. Per cosa moriranno? Per cosa piangeranno madri e bambini?». È con queste parole che il movimento d’opposizione Vesná ha invitato i russi a scendere in piazza contro la mobilitazione ordinata da Vladimir Putin: un appello che ha riacceso le proteste pacifiche contro l’atroce invasione dell’Ucraina e che riflette i timori di tanti russi di essere mandati in guerra come carne da cannone. La polizia russa ha represso le manifestazioni con ondate di arresti e brutalità. L’Ong Ovd-Info, specializzata nel monitorare gli arresti di matrice politica, stima in più di 2.200 le persone fermate per aver partecipato ai cortei del 21 e del 24 settembre contro la chiamata alle armi: manifestanti pacifici, trascinati nelle camionette della polizia solo per aver avuto il coraggio di criticare un ordine di Putin. Solo per aver osato esprimere la propria opinione.

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Sabato 24 settembre il cielo è nuvoloso, a tratti piove. A Mosca i manifestanti si sono dati appuntamento alle 17 ai piedi del monumento al drammaturgo Aleksandr Griboyedov, su viale Cistoprudniy. Per sicurezza, il luogo di ritrovo è stato comunicato con poche ore di anticipo. Quando la gente arriva, gli agenti comunque già presidiano la zona e cominciano subito ad arrestare: donne, uomini, ragazzi e ragazze vengono fermati alla spicciolata.

 

Un giovane viene trascinato con le mani piegate dietro la schiena, altri vengono afferrati per le braccia e per le gambe e portati via di peso. Molti poliziotti sono membri delle forze speciali Omon. Sono alti, fisicamente ben piazzati. Indossano una sorta di armatura: caschi, giubbotti protettivi, parastinchi, paraspalle e gomitiere. Ma i manifestanti sono pacifici. Una giovane ragazza sale velocemente in piedi su una panchina. Ha il tempo di urlare: «Non siamo carne da cannone!», poi viene subito fermata. Ci sono state proteste anche in altre città della Russia.

Il New York Times racconta che a Tomsk un uomo si è piazzato in mezzo al traffico ripetendo continuamente agli automobilisti l’augurio: «Una vita di pace ai nostri figli», mentre a Novosibirsk gli agenti hanno arrestato decine di persone che si erano prese per mano e facendo un girotondo avevano intonato una vecchia canzone contro la guerra. La Reuters riporta invece immagini che mostrano degli agenti che bloccano a terra dei manifestanti e sferrano un calcio a uno di loro prima di portarli nelle loro camionette. Un uso spropositato e ingiustificato della forza bruta contro i manifestanti è stato segnalato anche nel primo giorno di protesta. Quel 21 settembre in cui Putin ha sconvolto mezzo Paese annunciando la mobilitazione dei riservisti ci sono stati quasi 1.400 fermati - tra cui molte donne - e Amnesty International denuncia che un dimostrante ha riportato la frattura di un braccio dopo essere stato picchiato dalla polizia.

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Tra i manifestanti c’è chi stringe in mano un cartello con la scritta «Net moghilizátsii». È un gioco di parole: «Net mobilizátsii» significa «No alla mobilitazione» Ma «moghíla» in russo significa «tomba». È insomma un secco «no» alla decisione di Putin di mandare altri cittadini russi a morire nella sanguinosa guerra in Ucraina che lui ha scatenato e nella quale sono già state uccise decine di migliaia di persone, tra cui tantissimi civili. A Mosca il corteo parte di sera dallo Stariy Arbat, una via del centro storico ricca di negozi e bar. «Mandate Putin in trincea!», urlano i manifestanti. «No alla guerra!». Alla fine della serata, i fermi nella capitale russa saranno ben 538, a San Pietroburgo 480. Ma ci sono anche 49 arresti a Yekaterinburg, 30 a Perm, 26 a Celyabinsk, 23 a Ufa.

 

Per protestare nella Russia di Putin occorre coraggio. Non solo perché si rischiano manganellate. Subito dopo il decreto di mobilitazione, la procura generale russa tuonava minacciosa che chi fosse sceso in piazza avrebbe rischiato fino a 15 anni di reclusione per la nuova legge sulla «diffusione di informazioni false» sulle forze armate: una legge “bavaglio” che in pratica proibisce qualunque tipo di critica contro l’aggressione all’Ucraina e per la quale sono stati arrestati oppositori di primissimo piano come Ilya Yashin e Vladimir Kara-Murza, mentre un altro noto dissidente, Alexey Gorinov, è stato condannato a quasi sette anni nel processo d’appello.

 

L’Ong Ovd-Info e alcuni giornali indipendenti riportano che ad alcuni manifestanti è stato consegnato l’ordine di chiamata alle armi in commissariato, subito dopo l’arresto. Il Cremlino si è limitato a rispondere che «questa pratica non è illegale». Se le cose stanno davvero così, si tratterebbe non solo di un uso punitivo della mobilitazione contro chi ha il coraggio di opporsi al regime, ma anche di una forma di intimidazione verso coloro che vorranno protestare in futuro contro la guerra. Non è chiaro quante persone saranno chiamate sotto le armi a causa della mobilitazione, definita «parziale» dalle autorità russe. Il ministro della Difesa Sergey Shoigu parla di 300 mila riservisti, ma fonti sentite dai giornali Novaya Gazeta Europa e Meduza alzano la cifra rispettivamente fino a un milione e a un milione e duecentomila richiamati. Il portavoce di Putin smentisce, ma il paragrafo del decreto che riguarda il numero di soldati da mandare al fronte viene tenuto segreto.

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La mobilitazione pare aver scatenato una vera e propria fuga dal Paese di migliaia di persone, 260 mila secondo fonti di Novaya Gazeta Europa, prima di tutto uomini che temono di essere reclutati. I media russi e internazionali riferiscono infatti di lunghe file di auto in uscita dalla Russia e di un notevole aumento della richiesta di biglietti aerei verso l’estero con conseguente impennata dei prezzi. Molti voli dalla Russia sono stati cancellati dalle sanzioni per l’invasione dell’Ucraina, ma restano i collegamenti con Paesi come l’Armenia, la Georgia o la Turchia, dove i cittadini russi possono entrare senza visto. La mobilitazione ha anche provocato reazioni violente. A Ust-Ilimsk, in Siberia, un uomo ha sparato a un ufficiale di un centro di reclutamento, ferendolo. Diversi centri di reclutamento sono stati incendiati o attaccati con le molotov.

 

La propaganda del Cremlino irrompe prepotentemente nelle case dei russi attraverso la televisione dipingendo l’atroce guerra in Ucraina come una «operazione speciale» per «denazificare» il Paese vicino. Menzogne ovviamente, che però fanno presa su alcuni strati della popolazione. Nel quartiere di Shcherbinka, nell’estrema periferia sud di Mosca, qualcuno ha disegnato in rosso su una recinzione di metallo la “Z” ormai divenuta il famigerato simbolo dell’aggressione all’Ucraina. Un’altra “Z” rossa compare su un blocco di cemento poco lontano, ma è stata cancellata con una X da chi si oppone alla guerra. Adesivi con la “Z” fanno capolino dai lunotti di alcune auto, ma sui muri di Mosca ci sono anche slogan contro l’invasione: «La guerra è un assassinio», recita uno di questi nella zona del centro espositivo Vdnkh.

 

Nei primi sei mesi di conflitto, da febbraio ad agosto, in Russia si sono registrati almeno 224 procedimenti penali contro chi ha condannato l’invasione e almeno 16.347 persone sono state fermate nelle proteste: i numeri sono sempre di Ovd-Info, che sottolinea però come la maggior parte dei fermi si sia registrata nel primo mese del conflitto, cioè prima che fosse approvata la legge “bavaglio” che di fatto prevede pesantissime pene detentive per chi condanna la guerra.

 

La mobilitazione però ora ha riacceso le proteste. I giornali locali riferiscono che in Daghestan domenica scorsa si sono registrati violenti scontri tra manifestanti e polizia, e la Bbc segnala un video in cui un uomo arrestato dà una testata a un poliziotto e viene poi picchiato. Secondo Ovd-Info a Makhachkala sono state fermate più di cento persone e gli agenti hanno usato pistole stordenti e manganelli. Alcuni attivisti sostengono che le autorità stiano mandando al fronte le persone pescando in modo sproporzionato dalle regioni più remote e da quelle in cui sono presenti importanti minoranze etniche, come il Daghestan, da dove secondo la tv britannica provenivano almeno 301 soldati russi morti in Ucraina: un numero che supera quello di tutte le altre zone della Federazione. Ma, purtroppo è probabile che le persone che hanno perso la vita siano molte di più.