Scafisti improvvisati e viaggi fai-da-te alimentano la tratta di uomini con destinazione l’Italia. E arrivano a frotte i palestinesi del ghetto di Shatila

«Il prossimo partirà in serata, dipende dal meteo. Al più tardi domani notte». L’aria è limpida e tira un po’ di vento al porto di Tripoli, ma i vecchi pescatori che filano le reti confermano che sta per alzarsi il mare.

 

Siamo nel Nord del Libano e in particolare nella zona di Mina, da dove salpano i barconi diretti verso l’Italia. È la nuova rotta che si è aperta da circa cinque mesi e che già in estate ha condotto molti migranti sulle coste della Calabria.

 

A camminare tra i moli del porticciolo, non si direbbe mai che sia proprio qui che di notte i trafficanti di esseri umani fanno i loro affari, quasi come Hassan, che mentre curiosiamo qui e lì ci offre una gita sul suo peschereccio, per mostrarci le isole al largo. In realtà, le partenze avvengono più avanti lungo la spiaggia, in piccoli approdi poco illuminati. A raccontarcelo è Brahim, libanese di 25 anni che ha tentato di andar via, ma la barca su cui era è affondata. «Negli ultimi mesi, in molti hanno deciso di partire, perché la situazione è disperata. Non è solo questione di povertà, è che manca il rispetto della dignità umana. E allora, con mia madre, due mie sorelle e la mia fidanzata abbiamo organizzato il viaggio», racconta al tavolino di un caffè.

 

Mentre parla si tormenta le mani. «Insieme ad altre persone abbiamo deciso di non affidarci ai trafficanti, ma di mettere insieme i soldi e affittare una barca. Però, mentre eravamo in mezzo al mare, la guardia costiera libanese ci ha aspettato, sembrava una trappola. Noi gli abbiamo spiegato che non eravamo trafficanti o criminali ma loro hanno lo stesso attaccato la barca con i fucili. Perché non avevamo dato la tangente. Si sa, i militari si fanno pagare dai mediatori che organizzano i viaggi. Noi non avevamo dato la mazzetta e ci hanno affondato. E mia sorella e la mia fidanzata sono morte».

 

Brahim ci mostra le foto del naufragio, i video dei momenti di terrore a bordo. E la foto della sua ragazza, annegata insieme ad altre quattro persone, tra cui un bambino.

Tripoli è una delle città più povere del Mediterraneo e ancor più delle altre città del Libano ha risentito della crisi economica. Non c’è lavoro, non ci sono strutture sanitarie. La corrente elettrica c’è solo un’ora alla settimana. Perciò, chi ha i soldi affitta dei generatori a circa 200 dollari al mese. Chi non può permetterselo, resta al buio. È per questo che la città è diventata il cardine delle partenze, non solo per i migranti, per i rifugiati, ma anche per i libanesi stessi. A camminare per le strade, la povertà la si scorge in piccoli dettagli: anziani che offrono ai bimbi un giro sul cavallo per pochi spiccioli, ragazzini con carretti di latta che vendono noccioline calde, donne con abiti rattoppati. E in mezzo alla miseria più nera, il business dei viaggi verso l’Europa è diventata un’idea su cui riflettere.

 

«Sa cos’è successo? Che molti hanno pensato di sfruttare la situazione e si sono trasformati in trafficanti. Magari con più scrupoli di altri, ma il risultato è lo stesso». Majdi Adam, palestinese di 45 anni, ci accoglie all’ingresso del campo di Shatila, a Beirut. Pochi giorni prima del nostro arrivo è stato il quarantesimo anniversario del massacro compiuto dalle forze libanesi e dall’esercito israeliano tra il 16 e il 18 settembre 1982.

 

Ma da allora la situazione del campo è peggiorata sempre di più. Addentrandoci tra i vicoli, entriamo nel cuore di questo ghetto palestinese e siriano, umido, cadente, a tratti puzzolente. «Le condizioni di vita sono degradanti qui dentro», racconta Adam accogliendoci nella sede della sua associazione per i ragazzi. C’è il calcetto, libri, puzzle, quaderni per scrivere o disegnare. Qualunque cosa pur di impegnare i ragazzi. «Non possiamo lavorare fuori dal campo, ma qui dentro non c’è nulla. E le cose si sono aggravate da quando sono arrivati i siriani».

 

Se la pagnotta è piccola, più arrivano commensali meno ce n’è per tutti. E si generano tensioni, spiega. «Per questo, molti hanno deciso di investire una somma intorno ai 10mila euro per comprare una barca e ne hanno ricavato anche oltre i 700mila euro». Dallo scorso aprile, a Shatila si è generata una frenesia per le partenze verso l’Europa. E infatti, i costi per un posto su un barcone sono cresciuti. Prima andavano dai 3 ai 5mila dollari, mentre adesso si aggirano tra gli 8 e i 10mila.

 

«Ci sono i vecchi trafficanti che hanno rincarato i prezzi e lavorano moltissimo», spiega ancora Adam sorseggiando il tè. «Fanno pubblicità tra i vicoli, mostrando le foto della bellissima barca che li porterà a destinazione. Sembrano guide turistiche. Ma è una bugia, perché la vera barca, in realtà, è troppo piccola per tutti e a volte è anche marcia. Per questo molti affondano e in tantissimi sono morti».

 

A volte, per ingannare le persone, i trafficanti raccontano che la barca piccolina su cui stanno salendo serve solo per condurli al largo, dove li aspetta la vera nave che li porterà in Italia. Lo dicono perché nessuno si tiri indietro per paura. «Poi ci sono i trafficanti improvvisati», racconta ancora: «Quelli che non sono spietati e magari davvero provano a fare arrivare tutti a destinazione, ma riempiono troppo la barca che, quindi, affonda ugualmente».

 

Nelle ultime settimane, ci sono stati diversi brutti naufragi, il più tremendo è quello al largo della città siriana di Tartus, in cui sono morte circa 81 persone ma decine e decine non sono ancora state ritrovate. In mezzo alla strada di Shatila incontriamo Mohammed, che in quella tragedia ha perso i suoi nipoti di 15 e 17 anni. Uno dei due è ancora disperso, l’altro è all’obitorio di Tartus, in attesa del riconoscimento.

 

«La Siria non si fida del test del dna fatto qui», racconta Mohammed nella penombra di casa sua. È saltata la corrente. «Allora gli hanno strappato un dente e ce lo hanno mandato per accertarne l’identità». Solo allora qualcuno potrà andare a prendere il corpo, per portarlo a Shatila, dalla sua famiglia. «Molti stanno capendo che il viaggio è rischioso, però la voglia di evadere da questo inferno è molto forte. Soprattutto dopo che è scoppiata la guerra in Ucraina»», dice Adam. Il conflitto tra Mosca e Kiev è venuto fuori più volte durante i racconti dei migranti, qui in Libano. E non solo per via delle conseguenze economiche, con i mancati rifornimenti di grano che di nuovo, dopo i combattimenti in Crimea, rischiano di bloccarsi.

 

A convincere molti a partire è stata la grande accoglienza dell’Italia e di molti Paesi europei verso i profughi ucraini. Perché loro sì e noi no? E allora, pensando di approfittare di un moto di generosità improvvisa, come se a spalancare i cuori verso gli ucraini si fosse fatto spazio anche per tutti gli altri, sono partiti. Rischiando la vita. Due bambinette si avvicinano per toccare la gonna e guardare il braccialetto. La madre le strattona e si scusa, ma sa che siamo lì per raccontare. «La verità è che il viaggio verso l’Europa può cambiare la mia vita, ma soprattutto quella dei miei figli, che potranno avere un futuro. Se io muoio, mi basta che loro sopravvivano in un mondo migliore di questo, lontano dalla guerra, dallo schifo, dall’ignoranza». Se ci fossero corridoi umanitari, quasi nessuno partirebbe illegalmente. Ma i flussi sono bloccati e a chi è disperato non resta che la rotta via mare.

 

Di migrazione ha parlato Giorgia Meloni nel suo discorso per la fiducia al Senato. «Dobbiamo impedire che la selezione di ingresso in Italia la facciano gli scafisti», ha detto la premier. E noi a Beirut ne abbiamo proprio incontrato uno di scafista. Rashad (nome di fantasia, Ndr) era a Mina con la sua famiglia pronto a partire. Quando il mediatore ha chiesto chi ne capisse di motori, lui si è fatto avanti, avendo lavorato per dieci anni in un’officina meccanica. E così, di punto in bianco, l’organizzatore del viaggio gli ha affidato il barcone, in cambio del viaggio gratis per lui, sua moglie e le sue figlie. Detto fatto, Rashad si è ritrovato a smanettare con un motore mezzo scassato che in mezzo al mare, a poche miglia da Cipro, è esploso e li ha lasciati in balia delle onde. «Siamo stati presi dai militari greci che ci hanno picchiati e riportati indietro», racconta. È rimasto scosso dal viaggio e infatti lo incontriamo alla presenza dell’assistente sociale del Centro libanese per i diritti umani. Il centro offre tutela a tutte le vittime di violazioni, torture, soprusi. Ma si occupa anche dei libanesi che negli ultimi anni sono rimasti senza lavoro o si sono ritrovati con uno stipendio equivalente a 100 euro.

 

Anche la povertà estrema è diventata un pull factor, cioè una motivazione per lasciare la propria terra e mettere la propria esperienza, il proprio futuro a disposizione di un altro Paese. Il Mediterraneo brucia, il nuovo governo ha già dichiarato guerra alle Ong ma appare sempre più chiaro che le vere motivazioni che muovono le migrazioni, i problemi che ci sono dietro non possono essere ridotti a slogan di propaganda.