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Cultura
dicembre, 2022

Valeria Bruni Tedeschi: «Ai miei attori dicevo: dovete quasi morire di gioia e di dolore»

Un gruppo di giovani teatranti nella Parigi degli anni Ottanta. Tra amori, voglia di vita, l’Aids. È “Forever Young”, dell’attrice e regista italo-francese. Che sulle accuse al partner chiede rispetto. E sull’attuale governo di destra: «Mi preoccupa molto, ma lo prendo come una specie di delirio»

«Tengo ad esprimere, innanzitutto, il mio grande rispetto per la libertà di parola delle donne e il mio profondo attaccamento al fatto che possano essere ascoltate. Sono stata io stessa vittima di abusi durante la mia infanzia e conosco il dolore di non essere presa sul serio. Ciò non mi impedisce, tuttavia, di essere sbalordita nel vedere il trattamento riservato a un giovane uomo oggetto di un’indagine penale in corso, senza alcun rispetto per le persone che stanno lavorando su questa indagine, né per il principio di presunzione di innocenza. Ad oggi, è chiaro a tutti che non è stato ancora giudicato, e questa scelta editoriale non è altro che un puro linciaggio mediatico». Sono parole scritte e lette a Roma dall'attrice e regista Valeria Bruni Tedeschi sull'attore Sofiane Bennacer, suo attuale partner e protagonista maschile del suo film “Forever Young“, denunciato per stupri e violenze. È ora nelle sale il film, fortemente applaudito a Cannes, storia di passioni incandescenti e amore smodato per il teatro, in cui Bruni Tedeschi sceglie di portare in scena la gioventù ribelle del Théâtre Nanterre-Amandiers degli anni Ottanta che ha frequentato in prima persona.

Le sono voluti lunghi mesi di casting per trovare gli attori giusti e poi settimane di prove prima delle riprese. Com’è andata?
«Abbiamo fatto insieme un lavoro molto teatrale, ho provato un grande piacere a dirigerli, sono tutti talenti formidabili. Il lavoro del regista è come quello di una madre egoista. Occuparsi dei figli, e non unicamente di sé, dà molta gioia: più che una regista generosa mi ritengo una regista fortunata».

La protagonista Nadia Tereskiewicz nel film si chiama Stella, ma è chiaramente il suo alter ego.
«Non l’ho filmata pensando di filmare me, non volevo realizzare un film nostalgico sui miei ricordi. Le ho parlato molto della mia vita e di situazioni che non conosceva, le ho fatto indossare i miei vestiti di allora, ma abbiamo lavorato soprattutto sul ritmo, perché abbiamo un ritmo interiore molto diverso. Nadia si è messa a mia completa disposizione, ha accettato la possibilità di perdere il controllo e lasciarsi portare per acquisire il mio respiro, mai per imitarmi. È stato molto bravo anche Sofiane Bennacer, che ho fortemente voluto nel film nonostante le voci che circolavano sul suo conto. Il suo personaggio arriva nella vita della protagonista come un uragano: è l’elemento travolgente che scombussola, fa innamorare e deragliare Stella, come tutta la scuola teatrale di Nanterre. Una scuola che è stata fondamentale per me, nel lavoro come nella vita».

Se dovesse dare un consiglio alla Valeria ventenne con l’esperienza di vita e di carriera che ha oggi?
«Le suggerirei di volersi più bene. Ai giovani attori, tutti, direi di non aver paura di fare psicanalisi, che non toglie il talento, ma offre la chance di essere più forti in un mestiere che fragilizza molto. E di circondarsi di persone care, perché è un mestiere che può rendere molto soli».

I giovani che vediamo nel film amano e vivono pericolosamente insieme.
«Volevo andare in profondità nelle emozioni come si va in profondità a vent’anni, un’epoca in cui volevamo divorare la vita. Eravamo tutti arsi dalla passione, dal desiderio di fare gli attori e di vivere in modo intenso. Dovevamo alzare la temperatura della nostra vita affinché fosse alta poi sul palcoscenico o davanti alla cinepresa. Per questo agli attori ripetevo: “Alzate la temperatura, dovete avere 41 di febbre, quasi morire di gioia e di dolore”. Senza isterie, però».

Ha saputo tenere alto l’equilibrio anche nell'affrontare il tema della malattia dell’Hiv che ha conosciuto da vicino con suo fratello Virginio, venuto a mancare nel 2006. Come ci è riuscita?
«Ho cercato di raccontare cosa fosse quella malattia a giovani che per loro fortuna non la conoscono più così tanto. Ho mostrato loro dei film, abbiamo parlato a lungo di come l’Hiv ci accompagnasse nel quotidiano: i risultati dei test e lo spavento facevano parte della nostra vita, così come la morte. Eravamo in balia di eros e thanatos, due forze che nel film si attraggono continuamente».

Il suo è un film incandescente, fatto di arte, sesso, droga, malattia e anime capaci di osare, che spicca nel panorama italiano: trova che il nostro cinema si sia “imborghesito”?
«Si parla tanto di libertà di parola, a me sembra ci sia qualcosa di tirannico e terrorizzante nell’aria che influisce sul modo in cui ci muoviamo: c’è una paura costante di non fare o non dire la cosa giusta, di non essere politicamente corretti. Più che imborghesito il cinema, come la società, mi sembra spaventato. Allora avevamo paura anche noi, ma della morte, di certo non della vita. Vivevamo pericolosamente, abitavamo con la morte ma non ci fermavamo, l’Es freudiano era più presente. Oggi governa il super-Io».

Ha affidato a Louis Garrel il ruolo di Patrice Chéreau che aveva un pensiero politico preciso. Ritiene che Forever Young sia anche un film politico?
«Chéreau era un uomo di sinistra che non aveva paura di avere un pensiero scorretto sulla sinistra stessa, era veramente libero. Quando gli proposero un teatro in piena Parigi disse che preferiva il teatro di una periferia di sinistra a Nanterre, Les Amandiers appunto. Fu un gesto politico. Per noi studenti era come un dio dell’Olimpo, è stato il primo regista a valorizzare la diversità e lavorare con attori di origini e provenienze diverse, e a mettere in scena i testi di Koltès. Arte, politica, pensiero intellettuale si mescolavano in lui e anch’io ho voluto mischiarli dentro il mio film, raccontando come l’incontro tra mondi diversi possa generare un grande amore».

Teme un governo di destra?
«Mi preoccupa molto, ma lo prendo come una specie di delirio. La collettività ha avuto un colpo di follia, speriamo sia solo un momento passeggero. Anche perché è un disastro per l’ecologia, che non riguarda solo l’aria pura ma la visione politica del mondo in cui c’è rispetto per ogni essere vivente e, ovviamente, per ogni essere umano, a partire dal più debole. Avere cura dei più deboli è un pensiero di sinistra, però. Tutto questo mi fa pensare a “Tutti dicono I love you” di Woody Allen, in cui il figlio di due democratici che fa discorsi di destra si scopre avere un serio problema al cervello, risolto il quale torna ad essere normale».

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