L’aggiunto della procura di Firenze che indaga sulla criminalità cinese: «Non si riesce a comprendere il significato di queste strutture. Registriamo una scarsa collaborazione della Repubblica popolare, nessun aiuto sulle indagini»

«Registriamo una scarsa collaborazione delle istituzioni cinesi e restano una forte omertà e chiusura da parte delle loro comunità imprenditoriali nel nostro Paese. Due elementi che andrebbero affrontati con nuovi trattati tra Italia e Cina di leale collaborazione non solo sul profilo economico ma anche su quello giuridico». Luca Tescaroli, procuratore aggiunto della procura di Firenze che conosce bene le mafie italiane e internazionali, e anche il tessuto economico cinese toscano, auspica un maggiore dialogo con le autorità della Cina e una maggiore chiarezza sugli uffici di polizia cinese aperti nel nostro Paese.

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Oggi secondo il suo osservatorio che peso ha la criminalità cinese in Italia?
«Posso dire che la presenza della criminalità organizzata in riferimento alla Cina è una emergenza importante che interessa particolarmente la Toscana, ma non solo. Abbiamo registrato molteplici investigazioni con l’esistenza di un impegno criminale significativo da parte di gruppi appartenenti alla comunità cinese. Questo d’altronde è un territorio nel quale solo a Prato, tanto per dare una idea, abbiamo sei mila imprese cinesi e su Firenze altre quattro mila aziende. E le infiltrazioni sono molteplici, tanto che abbiamo dedicato una intera unità della Dda alla criminalità cinese».

 

La comunità cinese come vive queste infiltrazioni. Ricevete denunce?
«Qui nessuno vuole criminalizzare la presenza cinese in Italia, anzi c’è una importante integrazione economica qualitativamente cresciuta nel corso del tempo: e questo è un dato importante. Ma l’integrazione deve avvenire anche sotto il profilo giuridico. Occorre a esempio che si attui con il rispetto degli obblighi tributari, per non drenare illecitamente risorse che dovrebbero affluire nelle casse dello Stato. Quello che emerge è l’esistenza di una comunità ancora caratterizzata da una forte omertà e chiusura all’esterno».

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Avete avviato delle collaborazioni con le istituzioni cinesi per la lotta all’evasione e alla criminalità organizzata?
«Abbiamo un trattato che prevede una assistenza giudiziaria firmato il 7 ottobre del 2010 e ratificato da entrambi i Paesi. Nelle attività di collaborazione in concreto non abbiamo però trovato molta disponibilità da parte della Repubblica popolare cinese. Sarebbe necessario invece potenziare e migliorare questo rapporto, penso sia di interesse anche dello Stato cinese per migliorare l‘integrazione economica insieme a quella giuridica, e contrastare insieme condotte criminali».

 

Come dovrebbe avvenire questa collaborazione? Ci fa un esempio concreto?
«Il dialogo costruttivo dovrebbe avvenire con le proiezioni della Repubblica popolare cinese in Italia, e cioè con ambasciata e con i consolati. Ad esempio abbiamo indagato su come siano stati trasferiti all’estero proventi da attività criminali attraverso l’uso di criptovalute che poi sono andate a finire nelle banche di Stato cinesi. Abbiamo chiesto di sapere a chi erano intestati quei conti. Ma non abbiamo ricevuto nessuna risposta. Le faccio un altro esempio: spesso abbiamo difficoltà nella individuazione degli interpreti di lingua cinese. C’è una penuria di interpreti che sono inadeguati e insufficienti rispetto ai nostri sforzi investigativi. Su questi problemi sarebbe auspicabile fruire di una proficua collaborazione».

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Che ruolo hanno allora le stazioni di polizia cinese nel nostro territorio aperte dopo un accordo tra governo italiano e quello di Xi Jinping?
«Ecco questo è un altro tema chiave. Non si riesce a comprendere il significato di queste stazioni di polizia: se sono uffici per il disbrigo pratiche amministrative, questa è una attività tipica dei consolati che si prodigano per agevolare i cittadini cinesi anche attraverso il rilascio dei passaporti o delle patenti. L’apertura di queste stazioni di polizia appare una mera duplicazione dei consolati: potrebbe sorgere la preoccupazione che possano essere dei silenti avamposti per controllare i cittadini cinesi che vivono in Italia. Allora questa è una finalità non del tutto commendevole che sembra non inquadrarsi in una ottica di leale collaborazione. Di sicuro da queste stazioni noi come inquirenti non abbiamo tratto alcun beneficio, in termini di dialogo e collaborazione investigativa»