Veri e propri uffici di polizia nascosti dietro fantomatici centri servizi, in almeno dieci città. Così, nel nostro paese, infiltrati di Xi Jinping hanno stanato e convinto con le minacce a tornare i “fuggitivi”

W. J. è un cittadino cinese giunto a Prato nel 2002. Arrivato illegalmente in Italia, per anni ha dovuto lavorare in nero con paghe intorno ai 700 euro mensili a fronte di turni massacranti da 15 ore al giorno in fabbrica. Pensava di essersi costruito una vita lontana dal regime cinese. L’illusione è durata fino all’agosto del 2015, quando è stato contattato dai suoi familiari rimasti in Cina, a loro volta contattati da ufficiali del regime.

 

Lo chiamavano per suggerirgli caldamente di ritornare in Cina e consegnarsi alle autorità cinesi, che da anni lo ricercavano perché accusato di appropriazione indebita. Dopo solo una settimana W. J. è rientrato in Cina, e da quel momento di lui non si è più avuta notizia.

 

Le autorità del regime hanno preferito minacciare W. J. e i suoi familiari e convincerlo a tornare in patria anziché usare le vie ufficiali, come ad esempio una richiesta di estradizione.

 

 

La caccia alla volpe
Di tutti i cosiddetti fuggitivi che rientrano in Cina solamente una percentuale compresa tra l’1 e il 7 per cento lo fa usando vie ufficiali. Lo affermano i dati forniti dallo stesso Ccdi (Commissione centrale per l’ispezione disciplinare), il più alto organismo di indagine interno al Partito comunista cinese che gestisce la «campagna contro la corruzione», utilizzata dal segretario Xi Jinping per le purghe sia interne al Partito che a livello internazionale. Gli altri «fuggitivi» sono stati illegalmente «persuasi a tornare», per usare le parole delle stesse autorità cinesi.

 

La preferenza del regime per la persuasione è legata alla ritrosia dei Paesi occidentali a che dei ricercati possano tornare in un territorio in cui i diritti umani di cittadini ordinari e oppositori politici sono sistematicamente calpestati, come anche affermato di recente dalla Corte europea per i diritti dell’uomo.

 

Come si legge in alcuni documenti pubblici, per concretizzare il desiderio di riportare i fuggitivi in Cina, nel 2014 Pechino ha lanciato l’operazione “Fox Hunt” - Caccia alla volpe - con cui da inizio 2014 a ottobre 2022 le forze di polizia cinesi hanno condotto con successo più di 11mila operazioni riguardanti talvolta singoli individui e talvolta interi gruppi familiari. Decine di migliaia di persone fuggite nei Paesi occidentali e di cui si sono poi perse le tracce al rientro in Cina. Alcune di queste sono state trovate in Italia e da qui fatte rientrare forzatamente in Cina usando mezzi come la ritorsione sui familiari e la tortura.

 

Le stazioni di polizia oltreoceano
Per superare il grande limite della distanza fisica, in tempi più recenti alcune strutture provinciali della polizia cinese hanno avviato operazioni in stretta collaborazione con il Dipartimento del fronte unito (Ufwd) e la sua rete internazionale di associazioni, tutte impegnate in operazioni di influenza politica. L’obiettivo delle operazioni era aprire stazioni di polizia camuffate da uffici di servizi in territorio straniero. Le attività erano supervisionate dal Ministero nazionale della Pubblica sicurezza (Mps).

 

Queste stazioni sono state aperte in molti Paesi occidentali tra cui l’Italia, e hanno consentito a persone vicine al regime di lavorare indisturbate e senza autorizzazioni sul suolo straniero seguendo le indicazioni ufficiali del Ccdi sulla «persuasione al ritorno», che includono anche l’impiego di familiari rimasti in Cina, di agenti sotto copertura, di spie, di sistemi di tortura e addirittura di rapimenti come «metodo legale» per convincere i fuggitivi a tornare.

Editoriale
I rimpatri forzati in Cina e il silenzio dell’Italia
2/12/2022

Formalmente gli uffici rinnovano patenti, passaporti e altri documenti cinesi e funzionano come dei Caf pensati per aiutare la comunità cinese a esplicare pratiche a distanza nel proprio Paese d’origine. Inoltre agirebbero come uffici consolari paralleli. E questo in violazione della Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari. Essa prevede che tali strutture siano indicate come tali alle autorità ospitanti. In realtà, però, lo stesso governo cinese definisce gli uffici come «stazioni di polizia d’oltreoceano» in cui il personale lavora affinché la comunità cinese locale venga monitorata e vengano intercettati eventuali fuggitivi, come confermano decine di storie personali verificate da L’Espresso.

 

L’esistenza di queste stazioni era già stata denunciata da un report pubblicato a settembre da Safeguard defenders, Ong spagnola dedita alla difesa dei diritti umani, e ripreso da alcuni articoli di giornale apparsi in Italia soprattutto su Il Foglio. Ma L’Espresso ora è in grado di rivelare in esclusiva nazionale dettagli nuovi che dimostrano il ruolo cruciale giocato dall’Italia nelle attività transfrontaliere del regime cinese.

 

La porta d’ingresso
In un nuovo report di Safeguard defenders pubblicato domenica 4 dicembre e che L’Espresso ha visionato in anteprima viene mappata una situazione ben più grave di quella iniziale. Le stazioni di polizia cinese d’oltreoceano in Italia non sarebbero più quattro come affermato inizialmente, ma almeno dieci. Oltre a Prato, Firenze, Milano e Roma, ora spuntano anche nuove aree tra cui Bolzano, Venezia e la Sicilia.

 

A questo punto l’Italia è il Paese con la più alta presenza al mondo di stazioni di polizia d’oltreoceano. Ma c’è di più. In alcuni documenti delle autorità cinesi, che L’Espresso mette a disposizione dei lettori online sulla piattaforma Pinpoint, si parla delle stazioni di Milano e Roma come di «progetti pilota». Cioè la Cina avrebbe utilizzato l’Italia come esperimento per capire come aprire stazioni di polizia su territorio straniero che sono state poi effettivamente impiantate in numerosi Paesi occidentali.

 

Ma perché il regime di Pechino ha trovato nell’Italia la porta d’ingresso al mondo occidentale? Secondo l’agenzia di stampa ufficiale cinese Xinhua, le stazioni di polizia d’oltreoceano sono «una delle importanti realizzazioni dei pattugliamenti congiunti di polizia sino-italiani». Il 27 aprile del 2015 infatti l’allora ministro degli Esteri Paolo Gentiloni firma un accordo con cui si dà il via a delle operazioni congiunte di pattugliamento del territorio tra forze dell’ordine italiane e cinesi. La prima stazione «pilota» viene aperta a Milano nel 2016 proprio durante lo svolgimento dei pattugliamenti congiunti.

 

Ma non finisce qui: il 24 luglio 2017 l’allora viceministro dell’Interno Filippo Bubbico firma un accordo per rafforzare i pattugliamenti congiunti. I contenuti dell’accordo rimangono tuttora ignoti, ma è noto che in occasione del rinnovo il ministero della Pubblica sicurezza cinese affida le missioni in quattro città italiane al Dipartimento provinciale di Pubblica sicurezza dello Zhejiang, lo stesso a cui sono legate le stazioni dello Qingtian presenti a Roma, Milano e Firenze, aperte nel 2018.

 

Esistono inoltre delle fotografie e dei video riportate su Formiche che immortalano l’inaugurazione della stazione di polizia d’oltreoceano all’Esquilino, storicamente punto nevralgico della comunità cinese nella capitale. All’inaugurazione, tenutasi nel luglio del 2018, è presente Giuseppe Moschitta, in quel momento capo del Commissariato Esquilino. Presenti anche Feng Sibo, alto rappresentante della polizia cinese, e il console cinese.

 

L’Espresso ha interpellato il ministero dell’Interno e Giuseppe Moschitta per capire cosa sapessero le autorità italiane in quel momento e la Farnesina per capire com’è possibile che l’ambasciata italiana a Pechino - all’epoca retta da Ettore Francesco Sequi - fosse all’oscuro del fatto che questi accordi venivano presi con l’Mps, ministero cinese ben noto per le attività di repressione condotte a danno dei dissidenti e delle minoranze etniche-religiose nel Paese. Anche perché i documenti in questione consultati da L’Espresso erano e sono tuttora pubblici.

 

Dopo più di una settimana né la Farnesina né il Viminale hanno mai risposto.

 

La reazione mancante
Tra le storie personali verificate da L’Espresso spicca quella di Z., in Italia per 17 anni e persuaso al ritorno in soli sette giorni dopo che le autorità cinesi avevano trovato la sua figlia minore ad Hangzhou. Secondo Laura Harth, campaign director di Safeguard defenders, «non solo operazioni e storie individuali simili hanno riguardato cittadini cinesi in almeno 120 Paesi del mondo, ma ci sono le prove dirette dalle stesse autorità cinesi che le stazioni di polizia d’oltremare sono coinvolte nelle operazioni».

 

In molti Paesi la questione viene investigata dalle Unità antiterrorismo o per la sicurezza nazionale, mentre negli Stati Uniti il direttore dell’Fbi ha dichiarato dinanzi al Congresso di essere molto preoccupato per delle attività così gravi «che violano il principio di sovranità e aggirano gli standard internazionali di cooperazione tra forze di polizia». Sul tema delle stazioni di polizia d’oltremare e la repressione transnazionale, la Commissione speciale sulle interferenze straniere del Parlamento Europeo udirà Safeguard defenders il prossimo 8 dicembre.

 

«L’Italia è l’unico Paese europeo in cui la reazione alla nostra indagine è stata molto fredda», ha detto Laura Harth citando in particolare l’ex ministra degli Interni Luciana Lamorgese (all’epoca della pubblicazione a fine mandato), che parlando della stazione di polizia di Prato disse al Foglio che «non destava particolare preoccupazione» e che nel complesso si trattava solo di uffici amministrativi che niente avevano a che fare con attività di polizia.

 

«Sarebbe il caso che il nuovo governo italiano mostrasse la ferma volontà di cambiare passo e investigare seriamente la questione, ivi inclusa l’esposizione complessiva del Paese alle interferenze di Pechino, visto che è proprio dall’Italia che è partito tutto», conclude Harth.