La Protezione civile smantellata (“ma sarebbe ingiusto dare tutta la colpa a Bertolaso”), regole stravolte, norme assurde. Parla il sottosegretario per la sicurezza

L’orgoglio di essere un servitore dello Stato, che non ha paura di caricarsi sulle spalle le responsabilità. Uno tra tanti, quasi sempre ignoti al grande pubblico, che permettono alla collettività di superare anche i momenti più drammatici.

 

A scorrere le pagine di “Naufragi e nuovi approdi. Dal disastro della nave Concordia al futuro della Protezione civile” (Baldini + Castoldi), si capisce che quello di Franco Gabrielli non è solo un saggio sulla Protezione civile ma un pamphlet sull’Italia intera e sulla sua classe dirigente: un Paese che sembra virare pericolosamente verso gli scogli, come la Costa Concordia nel momento dell’inchino, affidata alle mani di capitani disastrosi.

 

Il sottosegretario alla sicurezza ed ex capo della polizia è stato il regista del recupero di quella nave colossale sommersa davanti all’isola del Giglio: un’impresa titanica, in cui lui tiene a ricordare «soprattutto ciò che si è compiuto lontano dalle luci della ribalta. Ad esempio l’osservatorio che ha monitorato passo passo le autorizzazioni, dall’operazione di rigalleggiamento fino alla rinascita della posidonia nei fondali, perché gestire un’emergenza significa arrivare fino al ripristino del territorio. Si sono impegnati in tanti, in maniera esemplare. Se è vero che dobbiamo essere consapevoli di quanto siamo complicati, dobbiamo anche sapere che esiste una parte positiva che manda avanti questo Paese e che deve essere valorizzata». 

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Gabrielli loda i «buoni», ma da toscano non risparmia critiche a chi ha smantellato la Protezione civile. «È stata trasformata nello strumento con il quale si è immaginato di risolvere anche altri problemi molto lontani dalle sue competenze, di fatto snaturandola». Il sottosegretario si riferisce agli appalti del G8, dei mondiali di nuoto o all’organizzazione di vertici internazionali affidati a Guido Bertolaso con ricchi fondi e regole semplificate: cose che nulla c’entrano con i soccorsi e la prevenzione.

 

«Così sono stati invasi territori di altre amministrazioni e ciò ha creato inevitabili gelosie, provocando lo scontro che ha portato alla legge del 2011: una riforma che in realtà è un regolamento dei conti, in cui la vittima è il sistema stesso della Protezione civile. Sarebbe però ingiusto dare tutta la colpa a Bertolaso. Se pensiamo ai famosi “grandi eventi” che hanno snaturato la Protezione civile, sono stati utilizzati sia dal governo Berlusconi sia dal governo Prodi perché quello strumento appartiene alla narrazione italica: preferiamo la scorciatoia alla programmazione». 

 

La corsa alla scorciatoia è uno sport nazionale, dove basta il respiro corto per vincere. Ma il risultato è che, come nella plancia della Concordia, si naviga a vista: «Siamo un Paese che vive di un eterno presente, per questo preferiamo la modalità di gestione emergenziale. Diciamo di frequente che noi italiani siamo i più bravi nelle emergenze. Vero. Ma l’obiettivo è rendere ordinario quello che riusciamo spesso a fare nelle condizioni straordinarie».

 

E di chi è allora la colpa? «I nostri amministratori non vengono da Marte, le persone che scegliamo negli organismi elettivi o quelle che innervano la pubblica amministrazione non sono marziani. Tutto si intreccia…». Gabrielli però guarda avanti e offre soluzioni: «Il messaggio nel libro è molto giocato sul rapporto tra pubblico e privato: un privato che si assume le responsabilità e un pubblico che gli permette di raggiungere risultati. Quello che è avvenuto dopo la tragedia della Concordia, nelle sue manifestazioni più nobili, ha fatto sì che il pubblico consentisse al privato di svolgere al meglio la sua attività».

 

Mentre al Giglio la Protezione civile, seppur ridimensionata, riuscì comunque ad avere alla fine il controllo della situazione, ben altra storia si è presentata all’inizio della pandemia. La struttura rimpicciolita dopo l’era Bertolaso non aveva le risorse e i poteri per affrontare lo tsunami dell’emergenza, venendo di fatto relegata in un ruolo secondario. «C’è stata un’inevitabile e per certi aspetti scontata acquisizione di consapevolezza della dimensione dell’emergenza nel corso dei giorni e dei mesi. Bisogna tener conto che dopo l’infausta legge del 2011 si è introdotta una distinzione delle emergenze a seconda delle autorità chiamate ad affrontarle. E così abbiamo avuto una mezzadria con il capo della Protezione civile nominato commissario per l’emergenza Covid su proposta del ministero della Salute, ma poi a marzo rimpiazzato da una figura scelta fuori dalla Protezione civile. È inevitabile che questo sia stato il risultato…».

 

Nella drammatica fase iniziale, lo Stato è sembrato delegare tutto alle regioni: come se l’epidemia fosse una somma di problemi locali. «Purtroppo in alcuni frangenti è mancata una gestione unitaria. Una gestione unitaria non significa solo emanare Dcpm ma condurre un’azione di condivisione e concertazione all’esito della quale c’è poi un’assunzione di responsabilità ai massimi livelli. È un percorso faticoso, ma l’unico possibile». Poi continua nell’analisi della risposta al Covid: «Nel momento in cui si è persa la centralità del sistema di Protezione civile, ogni elemento ha funzionato come un insieme di monadi non racchiuse in una gestione complessiva. All’inizio abbiamo avuto la bicefalia tra Protezione civile e ministero della Salute, poi si è creata la struttura alternativa del commissario straordinario. Certo, stiamo parlando della più grande emergenza che il Paese sta affrontando dal Dopoguerra e bisogna sempre ricordare che non ci sono soluzioni facili. Ma andare a ricercare ciò che non ha funzionato serve per attrezzarci a uno scenario che caratterizzerà ancora i prossimi anni. L’atteggiamento da tenere non è ricercare colpevoli, ma individuare le criticità. Per impedire che si ripetano».

 

Imparare dagli errori. E cambiare il nostro approccio alla prevenzione. Nel libro cita un episodio reale: un paese calabrese dove i genitori hanno protestato contro il trasferimento dei loro figli in un edificio scolastico più sicuro ma più lontano dalle abitazioni. Permette di cogliere la profonda difficoltà nel rendersi conto dei rischi; quasi un deficit culturale del nostro Paese. «È il problema dei problemi: solo la consapevolezza del rischio ti permette di attrezzarti a fronteggiarlo. Purtroppo spesso invece l’approccio è apotropaico, quello dello “speriamo non accada” a tutti i livelli. A ridosso delle pendici del Vesuvio hanno costruito in maniera indiscriminata: in caso di eruzione dovremmo spostare più di 800mila persone, che vivono immaginando che il vulcano non si risvegli o comunque sia eventualità lontana. È la stessa consapevolezza di chi compra una casa in una zona esposta alle alluvioni o costruita senza rispettare i criteri antisismici, mentre dedica grande attenzione al parquet, le maioliche, gli infissi». Come se il pericolo riguardasse soltanto gli altri. «Alla fine di fronte alla calamità, l’atteggiamento è “fate presto”: dove persona e verbo trasferiscono la responsabilità ad altri. Bisognerebbe dire “facciamo prima”, che implica la partecipazione alla salvaguardia e alla sicurezza».

 

Nel libro loda Giuseppe Zamberletti, come padre della Protezione civile: ai tempi della prima Repubblica c’erano civil servant più qualificati? «Il sistema della Protezione civile, prima che fosse manomesso, aveva grandi eccellenze e ci sono stati personaggi lungimiranti. Ma non ci deve essere un’idealizzazione del passato. Zygmunt Bauman l’ha espresso nel concetto di retrotopia: l’attitudine a collocare nel tempo andato l’immaginazione di una società migliore. Abbiamo idealizzato il passato, pensi che siamo arrivati a idealizzare la prima Repubblica anche nelle sue conclamate negatività, e di converso abbiamo il terrore del futuro vivendo un eterno presente».

 

Nella metamorfosi al ribasso della Protezione civile, Gabrielli vede «un capolavoro di tartufesco scarico di responsabilità». «Molto spesso vi è una fuga dalla responsabilità e dalla competenza. L’esperienza “dell’uno vale uno” ha mostrato i suoi limiti: quando la società civile è sembrata assumere un maggior peso, ad un maggiore potere non è corrisposto una analoga assunzione di responsabilità».

 

Responsabilità è il concetto chiave del libro. Ricorda il Vajont: un disastro per cui lo Stato non ha mai chiesto scusa ai familiari delle vittime e alla collettività intera. Gabrielli invece come capo della polizia ha voluto scusarsi per i fatti di Genova e la sua resta un’eccezione. «Tendiamo sempre a trovare giustificazioni; immaginiamo che gran parte della responsabilità non ci riguardi. E se quello che avviene non ci riguarda, allora è complicato chiedere scusa». Mentre un tg trasmette la cerimonia di insediamento di Mattarella, l’ex capo della polizia cita il discorso tenuto da Napolitano: «Un presidente della Repubblica che al secondo mandato prende a schiaffi l’uditorio mentre i parlamentari applaudono perché pensano che ce l’abbia con qualcun altro, è esemplificativo di questo modo di ragionare. Pensiamo sempre che le critiche non ci riguardano perché c’è qualcuno più responsabile di noi…». 

 

Le leggi poi non sembrano essere concepite per gestire la vita pubblica, ma quasi per mantenere vivo un sistema burocratico de-responsabilizzato. «Rispondono all’illusione che una norma possa risolvere un problema e molto spesso si riferiscono a situazioni specifiche, perdendo di vista l’aspetto più complessivo. Poi vanno a stratificarsi e sovrapporsi determinando tante interpretazioni che danno la possibilità di scantonarle e non applicarle. In molti settori rappresentano più un problema che una risoluzione al problema».  

 

È più pericoloso il fango delle frane o quello della burocrazia? «Entrambi. Viviamo in un Paese già fragile per la sua morfologia, a cui si aggiunge l’azione dell’uomo che invece di preservarlo l’ha violentato e sottomesso a logiche di interesse particolare. In questa situazione già complicata spesso le misure di prevenzione e gli interventi nell’emergenza soggiacciono a lacci e lacciuoli. Non vorrei però si ingenerasse un equivoco: semplificazione non significa deregulation. Siamo il Paese dei due estremi. Da una parte, l’eccessivo appesantimento del sistema con norme iperdettagliate e cavillose. Dall’altro la semplificazione da interpretare come mancanza di regole. Non bisogna fare l’errore di immaginare che lo smantellamento della burocrazia sia la risposta adeguata e giusta». E insiste: «È fondamentale l’assunzione di responsabilità ai vari livelli. Un mio caro amico un giorno mi ha detto: “Ti immagini a spiegare a un tedesco lo sciopero bianco?”. Da noi l’applicazione scrupolosa di tutte le regole può portare a bloccare tutto. Abbiamo immaginato di risolvere ogni cosa con una bulimia normativa: si è creato un mostro con cui non si gestisce certo la cosa pubblica per le esigenze dei cittadini. Occorre mantenere un sistema di regole efficienti, che siano una garanzia per tutti».

 

Queste regole e questa burocrazia adesso devono gestire il Pnrr: l’alluvione dei finanziamenti miliardari del Recovery fund. Come si può impedire che vengano paralizzati o finiscano sulla tavola delle mafie? «Sul fronte della criminalità organizzata già ai tempi in cui ero capo polizia abbiamo istituito un osservatorio interforze per il monitoraggio. È chiaro che l’iniezione di denaro fa gola alle mafie che non sono onlus: hanno come esclusiva ragion d’essere conseguire profitto in maniera illecita, usando tutti gli strumenti dalla violenza a quelli dell’economia legale per infiltrarsi. C’è poi il tema della burocrazia e delle lungaggini e non è un caso che il presidente del Consiglio nella ripartenza post quirinalizia abbia subito posto la questione della verifica costante su tempi e realizzazioni del Pnrr. È un fattore determinante».

 

Gabrielli scrive: «In situazioni di emergenza ogni civil servant sarà solo con la sua coscienza e dovrà decidere senza se e senza ma uscendo dalla imperante logica cerchiobottista e anteponendo la salvaguardia del bene comune alle proprie fortune professionali». Ma quanti civil servant di questa stoffa esistono nel Paese? «Più di quanti si possa pensare. C’è tanta gente che ci crede ancora. Penso all’ammiraglio Stefano Tortora, il comandante logistico della Marina Militare designato per il monitoraggio dei lavori di rimozione del relitto della Concordia di cui parlo nel libro: è una ricchezza del Paese non nota ai più. Il punto è mettere queste risorse nelle condizioni di lavorare».