Analisi
Kabul chiama Kiev: il filo rosso che collega l'Afghanistan alla guerra in Ucraina
Sconfitta americana e aggressione russa hanno la stessa matrice storica: l’illusione del “momento unipolare”. Perché siamo invece in un mondo multipolare dove non bastano più i muscoli per rivendicare potere e spazi di sovranità
Una guerra si chiude in Afghanistan, con gli americani sconfitti. Una si apre in Ucraina, con i russi invasori all’attacco, ma politicamente già sconfitti. I due fronti si tengono. Non solo per quelle centinaia di afghani scappati da Kabul dopo la presa dei Talebani a metà agosto, poi rifugiati in Ucraina, ora di nuovo alle prese con il dramma della guerra, del cercare rifugio e protezione. Ma per un rapporto di causa-effetto tra l’aggressione muscolare di Mosca all’Ucraina e la debacle di Washington in Afghanistan, dove i russi hanno pazientemente aspettato l’inevitabile sconfitta dei vecchi nemici, i cui muscoli, flessi a lungo in segno di potenza, hanno poi dimostrato di non essere in grado di ottenere neanche – penna alla mano – un accordo diplomatico da una posizione di forza con i Talebani, oggi al potere.
La sconfitta militare americana in Afghanistan è il funerale dell’idea di unipolarismo, a lungo coltivata da Washington. I muscoli flessi da Putin in Ucraina sono una reazione tardiva a quella stessa idea. Ma la sconfitta politica della Federazione russa, messa in un angolo dalla reazione della comunità internazionale all’aggressione in Ucraina, dimostra che non bastano più i muscoli per rivendicare potere e spazi di sovranità in un mondo multipolare.
Sconfitta americana e aggressione russa hanno dunque la stessa matrice storica: l’illusione del “momento unipolare”. Messa nera su bianco da un articolo su Foreign Affairs del 1990 dall’analista conservatore Charles Krauthammer, è l’idea che “l’immediato mondo post-Guerra fredda non sia multipolare. È unipolare”. La convinzione che, dissolta l’Unione sovietica, rimanga un solo potere globale, gli Stati Uniti. E che Washington abbia il diritto e il dovere storico di mantenere e consolidare la propria egemonia, attraverso la forza.
Nel 1992 l’illusione del momento unipolare innerva la dottrina Wolfowitz, dal nome dell’allora sottosegretario alla Difesa Usa. Una dottrina aggressiva, centrata sulla difesa a tutti costi dell’egemonia globale degli Usa. Rivisitata e adattata alle mutate condizioni geopolitiche, ma mossa dagli stessi obiettivi e dalla stessa presunzione, la dottrina Wolfowitz viene poi usata dai neoconservatori sotto la presidenza di George W. Bush, l’uomo che decide la rappresaglia contro al-Qaeda per gli attentati dell’11 settembre e il rovesciamento del primo Emirato dei Talebani, nel 2001. È la stessa illusione ad alimentare la war on terror e l’espansionismo a est della Nato, a cui Mosca risponde con la strategia dell’instabilità controllata nel Caucaso.
Minacciata dall’espansionismo euroatlantico nella cintura ex-sovietica, già negli anni Novanta del Novecento, Mosca coltiva una postura ambigua: allo stesso tempo parte in causa e mediatrice nei conflitti in Abcasia, Ossezia, Transnistria, Nagorno-Karabakh. Per consolidare l’influenza in Eurasia e contenere i rischi di allargamenti dei conflitti, monopolizza gli accordi per il cessate il fuoco. Gioca all’instabilità controllata in attesa di ristabilire la propria centralità in Eurasia. Lo spazio post-sovietico primo o poi deve tornare la propria sfera di influenza. È una questione di sicurezza nazionale, dicono già allora a Mosca, in attesa di tornare ad avere le risorse per tradurre in fatti l’ambizione strategica. Nel 2008, per la prima volta, vengono formalmente incrinati i confini post sovietici da parte della Federazione russa: dopo la guerra dei “cinque giorni” con la Georgia in Ossezia del Sud e Abcasia, Mosca ne riconosce l’indipendenza, illegittima secondo la comunità internazionale.
Conflitti congelati, pensano per anni a Bruxelles come a Berlino. Nel 2014, poi, la guerra in Ucraina e l’annessione della Crimea. I conflitti congelati in realtà ribollono lungo la zona di cerniera tra l’Asia e l’Europa, tra la Federazione russa, la Nato e l’Unione europea. Nel febbraio 2022 l’invasione dell’Ucraina, con obiettivi ed esiti imprevedibili. Forse, nelle intenzioni iniziali di Putin, un cambio di regime a Kiev, l’instaurazione di un governo pro-russo, il riconoscimento della Crimea come territorio russo e l’autonomia nel Donbass. E basta chiacchiere sull’adesione Unione europea e Nato, alleanza arrivata alle porte di casa ma che in Afghanistan si dimostra debole.
Non è casuale che l’invasione dell’Ucraina avvenga sei mesi dopo la sconfitta americana in Afghanistan, dove Mosca usa diversi strumenti: pragmatismo, attendismo e interventismo prima nascosto, poi esplicito. Agli inizi dell’intervento militare, consente il passaggio sul proprio territorio dei mezzi non militari della Nato. Poi, in particolare tra il 2008-09 e il 2013, è artefice e parte di un consenso regionale con tutti quei Paesi – Pakistan, Iran, Cina, Arabia Saudita – che guardano con sospetto e ostilità alla presenza Usa nell’area. Gli attori regionali intervengono per limitare i danni ai propri interessi. L’obiettivo è unanime: impedire la cristallizzazione dello status quo. In poche parole, gli americani vanno colpiti, cacciati. Sauditi e cinesi trasferiscono denaro e aiuti ad alcuni gruppi anti-governativi, tramite il Pakistan, mentre gli iraniani e i russi stabiliscono contatti diretti con i Talebani. Nel 2014/2015, con la conclusione della missione di combattimento Isaf della Nato, con il disimpegno graduale ma progressivo delle truppe Nato e Usa, la preoccupazione per la presenza statunitense in Asia centrale declina. Si incrina il consenso regionale in chiave anti-americana, aumentano i contatti bilaterali. Mosca rafforza i rapporti con i Talebani, con incontri, visite e – dice qualcuno senza prove definitive – sostegno militare. Fino al ritiro delle truppe americane, avvenuto lo scorso agosto.
Donald Trump, che in queste ore con cinismo ottuso critica la debolezza del presidente Joe Biden e riconosce il legame tra l’esito della guerra in Afghanistan e l’inizio di quella ucraina, lascia in eredità a Biden un dossier quasi chiuso. Un accordo di pace (firmato a Doha nel febbraio 2020) che non garantisce nulla agli afghani e che certifica soltanto la sua cecità diplomatica: Washington ha dissipato il proprio capitale militare e politico. I Talebani sanno che le truppe straniere se ne andranno. Biden entra alla Casa Bianca, ci riflette a lungo e poi conferma l’accordo, aggiungendo che il ritiro sarà incondizionato. Promette un ritiro responsabile, che si traduce però in uno schiaffo clamoroso.
I giorni tra la metà e la fine di agosto, le immagini degli afghani umiliati in attesa di poter entrare all’aeroporto di Kabul per lasciare il Paese, la fuga all’estero del presidente Ashraf Ghani (a cui gli afghani contrappongono il coraggio di Zelensky), l’attacco rivendicato dallo Stato islamico che miete quasi 170 vite afghane e quelle di 13 marines all’aeroporto, sono un danno d’immagine di proporzioni storiche. Per Mosca è la prova che gli Stati Uniti sono una potenza decadente. Va colpita, indirettamente, nel momento di massima vulnerabilità. Scatta l’invasione dell’Ucraina. In Afghanistan, Washington impiega 20 anni per riconoscere che l’occupazione è controproducente, per poi fare le valigie e lasciare dietro di sé enormi danni materiali e sociali. Nel caso dell’Ucraina, i costi politici dell’aggressione sono già evidenti a Mosca. Ma terminare una guerra è più difficile che iniziarla. Se l’invasione dovesse trasformarsi in occupazione, la stessa che ha garantito la longevità politica ai Talebani sconfitti nel 2001 e al potere oggi, il dramma afghano rischierebbe di replicarsi in Europa.