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Mondo
marzo, 2022

La resistenza di Leopoli: giubbotti fai da te e corsi rapidi di soccorso. «Così riconvertiamo tutto per difenderci»

La città più occidentale del paese è un crocevia. Qui passano i convogli dei profughi. E quelli degli aiuti a chi sta sotto le bombe. «Ognuno di noi deve fare quello che può per contribuire alla vittoria»

Questo articolo è pubblicato senza firma come segno di protesta dei giornalisti dell’Espresso per la cessione della testata da parte del gruppo Gedi. Tutte le informazioni qui

 

I giubbotti anti-proiettile a Leopoli non si trovano più. E nemmeno gli elmetti e le tute mimetiche. Gli europei ne hanno spediti a vagonate ma al fronte ci sono decine di migliaia di uomini che combattono. «Abbiamo più uomini che attrezzatura», dice Vasilis Mikula, un ex-guida turistica trasformatosi in animatore della logistica delle retrovie della guerra. Poi l’idea. Ha riaperto le porte di una fabbrica dismessa della norvegese Nfm che produceva abbigliamento da combattimento; ha richiamato le operaie rimaste senza lavoro; ha speso i soldi della diaspora americana («ho 75 cugini sparsi tra il New Jersey e Chicago») per fare arrivare teli e accessori dalla Polonia e ha intrecciato i rapporti con Eleks, la filiale ucraina della società tecnologica estone che tiene i contatti con i reparti speciali dell’esercito nazionale, incluso il temuto battaglione Azov, un tempo sinonimo di nazionalismo violento, oggi di eroismo patriottico.

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Il risultato è stata la produzione di un giubbotto porta armi con due placche anti-proiettili avanti e dietro. «Il disegno è rubato ma è ottimo, e noi lavoriamo 24 ore al giorno per rifornire gli uomini in prima linea», dice, sottolineando che «la vittoria è il frutto al 30 per cento del combattimento al fronte e al 70 per cento della logistica nelle retrovie».

Leopoli, Lviv in ucraino, contesa per secoli tra austriaci, tedeschi, polacchi e russi, celebre per i suoi palazzi ricamati con il sincretismo delle architetture europee di inizio secolo scorso, poliglotta riluttante, europea d’indole e tradizione, è diventata il crocevia nazionale del grande esodo degli ucraini in fuga. La città di 800 mila persone da cui sta passando la maggioranza dei tre milioni di sfollati, di cui un quarto si ferma, attratta dai negozi e dai ristoranti aperti, dalla musica nelle piazze, sperando nella fine del conflitto. La città dove arrivano i treni da Kiev e ripartono, nessuno sa mai a che ora, quelli per Cracovia e Varsavia da una stazione che sembrava troppo grande per una città che non è mai stata a lungo capitale e che oggi fatica ad abbracciare i milioni di donne e bambini che si affollano sotto la cupola ottocentesca. La splendida e decadente città d’arte e cultura, l’Havana d’Europa, si è trasformata in meno di un mese nel centro operativo della difesa territoriale ucraina: il cuore della logistica della resistenza, forte di quel confine con la Polonia, porta d’Europa, che dista solo 70 chilometri.

Qui a nessuno è permesso di restare a guardare. Chi non combatte deve aiutare. Ogni competenza serve. E servono perfino le velleità personali: il tempo della guerra è l’occasione per reinventarsi e scoprirsi più capaci. Come Olek Tabun e Sava Chuikov, nemmeno trentenni e già due volte imprenditori. Il primo, dopo la rivoluzione di piazza Maidan nel 2014, l’anno in cui «questa guerra è cominciata tra l’indifferenza dell’Europa», aveva creato l’“Accademia per l’educazione alla leadership”.

 

È una scuola al di fuori del circuito formale che insegna ai ragazzi di 16 anni «a prendersi la responsabilità del futuro dell’Ucraina», come dice in un caffè del centro. «Da noi manca una classe dirigente che possa guidare il Paese, contrastare la corruzione, creare un’identità nazionale e portarci in Europa. Così abbiamo cominciato a mettere insieme un corso di studio di un anno per diffondere nozioni di politica, etica e economia a chi domani dovrà assumere posizioni dirigenziali. Il corso è diventato così popolare che ne abbiamo varato un altro diretto agli studenti universitari». E oggi? «Oggi è più necessario che mai. Ma siamo in guerra e abbiamo deciso di modificare il curriculum. Sava insegna come fermare un dissanguamento e rianimare i feriti».

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Leadership è anche capire cosa serve, quando serve. Ex poliziotto riciclatosi in insegnante di tecniche di rianimazione, si è messo gratuitamente al servizio di veterani incalliti e di ex-casalinghe agguerrite. A pochi passi dalle statue della preziosa piazza Rynok, ora avvolte in teli protettivi, e non lontano dalle antiche vetrate della cattedrale ricoperte da pannelli di legno, insegna a oltre 100 persone al giorno come salvare vite. Senza sosta. Il tempo è poco. Il fronte della guerra è arrivato a Kiev, la capitale.

Occorre essere pronti. Dopo il recente bombardamento sulla gigantesca base militare a 20 chilometri dal confine polacco e a una trentina dalla città, che ha causato un numero mai confermato di feriti e di vittime; dopo una settimana di notti squarciate dal suono delle sirene che avvertono di missili in arrivo e fanno passare lunghe ore insonni nel freddo delle cantine; dopo le immagini di città rase al suolo e delle lacrime di milioni di compatrioti in fuga che supplicano ogni giornalista che incontrano di chiedere la chiusura dello spazio aereo: ora nessuno crede più che esista un luogo sicuro in Ucraina fino a quando Vladimir Putin non sarà respinto. Se la vita non si è mai fermata a Leopoli, come è avvenuto nelle città dell’Est, paralizzate dai bombardamenti russi, certo non sarà più uguale a prima. Mentre il governo regionale riapre le scuole online dopo tre settimane di chiusura emergenziale per evitare che le giornate dei bambini traumatizzati si trasformino in incubi senza futuro, gli adulti si ritagliano un ruolo nella difesa collettiva del Paese. Nazionalismo è diventato sinonimo di eroismo. La città di Leopoli è il bastione della determinazione politica di un popolo unito forse per la prima volta. È il motore della futura identità ucraina. Quella che da dieci anni covava sotto le ceneri e a cui bombe e sangue hanno dato urgenza.

 

Andri Cepa, 34 anni, berretto con visiera blu su felpa rossa, lunghe gambe magre sotto il volante, occhi tondi che si velano quando parla del suo bambino, per anni ha trasportato turisti a zonzo per l’Europa. Adesso accende il motore del suo pullman, i finestrini ricoperti di pannelli adesivi per impedire di conoscerne il contenuto, nel cortile di uno dei quattro grandi centri di raccolta e distribuzione di cibo, vestiti, medicine e alloggi di Leopoli. È in partenza per Kiev: porta provviste e aiuti, riporta sfollati. «Ognuno di noi deve fare quello che può per contribuire alla vittoria», dice: «Certo che ho paura: ma cosa dovrebbero dire i miei coetanei al fronte?».

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Dall’altra parte della città Victor Ponomaryov, poliglotta diplomatico in pensione scappato da Kiev con moglie e figlia, non vuole starsene con le mani in mano dopo una vita passata in giro per il mondo a servire il Paese. Adesso intreccia vecchie reti da pesca con scampoli di tela mimetica per creare coperture militari con cui fare sparire dai mirini russi elicotteri e posti di blocco. Con lui ci sono decine di donne, anziani, bambini di ogni parte dell’Ucraina che, all’interno di un edificio comunale, la musica per nascondere i sospiri, lavorano insieme, cancellando le distanze culturali che la Storia del secolo scorso, una guerra alla volta, ha scavato in un Paese grande due volte l’Italia. E che, come una volta l’Italia, è culturalmente e politicamente diviso in due, in questo caso tra un Est filorusso, legato a Mosca non solo dalla lingua ma anche dalla visione della società e dell’economia, e un Ovest che non ha mai abbracciato Mosca nemmeno durante gli anni sovietici e che, nel 1918, dopo la Prima guerra mondiale e prima del dominio polacco, poi nazista, poi russo, aveva tentato già la creazione di una sua repubblica occidentale indipendente. L’indipendenza vera è arrivata nel 1991, con il crollo dell’Unione sovietica. Ma, come nel caso di altre ex-repubbliche sovietiche, la Russia non l’ha mai davvero accettata, e una buona parte dei 44 milioni di ucraini, con reti familiari tessute da ambo i lati del confine, non ha voluto scegliere da che parte stare. A chi obbedire. Alla propaganda di chi credere. «Nell’Est del Paese non hanno i nostri stessi valori», dice Mikula: «Non sono critici nei confronti dei leader, a cui perdonano tutto in cambio di poco, e non credono nel libero mercato».

La guerra, questa guerra violenta, rabbiosa e fratricida, sta cambiando tutto. Dalla presa relativamente pacifica della Crimea e delle due province del Donbass sono passati solo otto anni. Ma sembra una generazione. «La mia città non esiste più», dice, le lacrime trattenute a stento, la capitana dell’aviazione Yulia Zhaleiko, 24 dei suoi 41 anni trascorsi dentro l’uniforme militare: «I russi l’hanno distrutta per spregio». Non si aspettavano la resistenza degli abitanti. «Pensavano che li avremmo accolti con i fiori», ripete a se stessa nelle poche ore di congedo, dopo avere portato a Leopoli gli studenti dell’ultimo anno della locale scuola di aeronautica militare a cui deve fare un corso accelerato perché il fronte chiama: «Ora polverizzano tutto per vendetta». Soprattutto Kharkiv, a 20 chilometri dal confine russo, la seconda città più grande del Paese, capitale informale della popolazione russofona. Figlia traditrice. Colpevole di non avere voluto spontaneamente tornare dalla madrepatria russa.

Come i vertici di Mosca, così anche gli abitanti dell’Ucraina orientale, quella che Putin sta distruggendo un bambino, un anziano, un palazzo alla volta, sono stati presi in contropiede. «Non avrei mai immaginato che i russi potessero fare quello che hanno fatto», dice in russo, la sola lingua in cui non ha problemi, Vera, 37 anni, una panetteria a Zhaporizhia, sede della più grande centrale nucleare in Europa, mentre stringe le mani ai suoi bambini nell’immensa piazza su cui si affaccia il celebre Teatro dell’Opera di Leopoli: «Ho mia madre in Russia e ora non ci parliamo più. Dice che l’esercito russo è venuto a liberarci dai nazifascisti, come dopo la Seconda guerra mondiale, e se le spiego l’orrore che ha portato mi risponde che sono vittima di notizie false, che è il nostro esercito a bombardarci, un branco di corrotti». Il bimbo, Yuri, alza gli occhi per afferrare un cioccolatino e dice «diakuio», “grazie” in ucraino.

Sono milioni le famiglie spezzate dalla violenza russa, separate dal muro di propaganda di Putin, che continua a diffondere l’idea dell’“operazione speciale”, nonostante le migliaia di soldati morti su ambo i fronti. «Quando nessuno mi salvava avevo una bella casa e una vita comoda», dice Ponomaryov: «Ora sono uno sfollato. Grazie “ruzzisti”!», sottolineando la crasi tra russi e nazisti.

Quel confine a Est, che per anni è sembrato così labile al punto che Putin ha deciso di cancellarlo, in tre settimane è diventato invece un abisso. Adesso è impossibile comunicare. Nemmeno la lingua russa basta più. «I soldati hanno buttato giù la porta del mio appartamento al quinto piano e, puntandomi un fucile, mi hanno chiesto se avevo un figlio», racconta nella scuola per tramvieri di Leopoli, diventato uno dei tanti dormitori comuni, Polina, 67 anni, infilata in lunghe mutande grigie di lana grossa, in testa un cappello di lana rosa, le unghie annerite, sul viso una vecchia mascherina FFP2 che il figlio le ha raccomandato di non togliere mai e che lei non cambia da giorni: «È dottore a Kiev, sta salvando gente. Non potevo dirlo. Ho risposto ai soldati che ho solo una figlia e che vive in Bielorussia. Mi hanno detto di andarmene da casa mia. Ho preso il passaporto. Ho dovuto lasciare i soldi. E il mio gatto». Piange: «Li ho visti mentre sparavano a un mio vicino mentre era in auto e poi l’hanno tirato fuori dal braccio ferito e poi...». Piange. «La mia città non esiste più. Non potrò mai più tornare indietro».

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