Denti, crani, mandibole. I resti degli antenati servono a chiederci chi siamo. Cosa ci distingue dagli altri mammiferi. E perché siamo capaci di uccidere i nostri fratelli. Lo scrittore olandese indaga su cosa ci rende umani

«Li guardi, anzi li tocchi pure. Sono denti di un cavallo selvatico». Frank Westerman tira fuori dalla borsa i frammenti di una dentatura e li poggia sul tavolo. «Sono veri, non sono mica una riproduzione. Li ho trovati su una spiaggia e risalgono ad almeno 40mila anni fa, così mi hanno assicurato». Che si tratti del corpo imbalsamato di un africano senza nome, come in “El Negro e io”, dei cavalli imperiali lipizzani, come in “Pura razza bianca”, o dei misteri della valle camerunense di Nyos, come ne “L’enigma del lago rosso”, nei reportage narrativi di Frank Westerman, autorevole rappresentante della scuola che lega Ryszard Kapuscinski al New Journalism statunitense, c’è sempre un “veicolo”. Uno specchio-metafora «nel quale riconoscere le nostre follie» e attraverso cui porre domande filosofiche. A partire, rigorosamente, da fatti reali. Nel suo ultimo libro, “Noi, umani”, pubblicato dalla casa editrice Iperborea come i precedenti e tradotto da Elisabetta Svaluto Moreolo, i fatti reali sono di natura fossile. Denti, femori, crani, mandibole servono a chiederci chi siamo, cosa ci distingue dalle altre specie e perché, se pretendiamo di esserne superiori, tendiamo all’autodistruzione.

 

Il punto di partenza del suo ultimo libro sono «le spoglie mortali di una donna adulta, straordinariamente piccola», trovate in una grotta indonesiana nel 2003. Da qui parte una lunga inchiesta, condotta con gli studenti del suo corso di Reportage, a cui chiede di «indossare i panni degli investigatori». Perché ha scelto di iniziare dall’Homo floresiensis, da LB1?
«LB1 è il modo giusto di chiamarlo. Dire “hobbit” sarebbe già attribuire troppi significati. Si tratta di un ominide di un metro di altezza, 25 chili, massa celebrale molto ridotta, comunque una donna adulta e piuttosto intelligente, vissuta “vicino a noi”. Eppure non sappiamo collocarla nell’albero genealogico del genere Homo. Lo trovo affascinante. Si tratta di un fatto, non è fantasia. Sono ossa tangibili, che possiamo toccare. Ma poi occorre dargli un senso. Sono come il cadavere ritrovato in un poliziesco, sul quale scattano le indagini. Nel mio caso, un punto di partenza per domande come: “Chi pensiamo di essere?”, “da dove veniamo?”. Poi c’è la grotta di Liang Bua, la “grotta fredda” dell’isola indonesiana di Flores, dove ogni dieci centimetri di terra si va indietro nel tempo di diecimila anni. Una sorta di viaggio nel tempo. Ma non è Alice nel paese delle meraviglie. Non è finzione. Nella grotta si trovano resti di topi giganti, elefanti alti come pony, cicogne di un metro e ottanta. E, appunto, un piccolo esemplare della famiglia degli Homo, alto un metro. Che ci pone domande immediate: perché ci vediamo come padroni e misura di tutte le cose? Ho invitato gli studenti a rispondere, a investigare. Gli è piaciuto».

 

Tra le domande più ricorrenti nel libro c’è anche «cosa distingue l’Homo sapiens dagli altri animali e mammiferi?». Eugène Dubois, padre nobile della paleoantropologia, alla fine nel 1891 sull’isola di Giava rintraccia «la prova della teoria eretica, e allora inaccettabile, che anche l’essere umano fosse un prodotto dell’evoluzione», il famoso anello mancante, «creatura intermedia tra scimmia e Homo sapiens». Perché la sua storia è così importante?
«Guardi qui, questa è una replica, realizzata con una stampante 3D, della parte superiore di cranio trovata da Dubois. L’originale è a Leida, in Olanda, in un ambiente climatizzato e protetto. Ho trovato affascinante la storia di questo figlio di un farmacista ossessionato dalla ricerca dell’anello mancante, che in Indonesia, sfruttando il lavoro degli schiavi, trova un molare, un femore e la parte superiore di un cranio. Pensa che non sia un umano, che non sia neanche una scimmia, ma qualcosa a metà. Un primate sconosciuto. All’inizio ritiene che sia un uomo-scimmia, un anthropopithecus, poi ci ripensa: è una scimmia-uomo, un pithecanthropus. Inverte i termini. Così facendo, con un tratto di penna, fa una rivoluzione copernicana e trova quella che ancora oggi è la specie-tipo dell’Homo erectus, il nostro diretto predecessore. Ma allora che cosa è un fatto? E cosa la narrazione? Leghiamo insieme residui di ossa, femore e molare e da lì ne ricaviamo una storia sul chi siamo, sul come ci siamo affermati nel regno animale mettendoci in posizione eretta, liberando le mani, potendo usare strumenti, pensando a cosa farne. Da pochi fatti emerge una storia. È quel che facciamo di solito, con fatti e parole. Attacchiamo le parole ai fatti creiamo le nostre storie. Siamo dei cantastorie. Oggi, però, la maggior parte degli studiosi ritiene che non esista alcun anello mancante, perché non c’è alcun albero di famiglia. Si tratta piuttosto di una foresta».

Una foresta che, da sola, appare incompleta. Tanto che uno dei suoi studenti, Freek, si presenta a lezione con due fogli: sul primo c’è un percorso di due milioni di anni, l’albero genealogico schematizzato delle specie di ominidi scoperte, sull’altro, un percorso di soli duecento anni, quello dei “cacciatori” di ominidi
«Ai miei studenti ho detto subito: abbiamo i fatti, i reperti ritrovati, le scoperte, e poi gli scopritori. I “cacciatori” sono gelosi, ambiziosi, tragici, narcisisti, sciovinisti. Se l’idea è imparare qualcosa sul chi siamo, perché fermarsi solo alle scoperte e non includere anche gli scopritori? Così uno studente ha tirato fuori questa idea dei due alberi. Quello degli scopritori ci riconduce nel regno dei vizi, dei limiti, degli intrighi shakespeariani. Chi ci dice di più sul chi siamo, Shakespeare o i paleoantropologi? Temo Shakespeare».

Il rapporto con i suoi studenti è interessante. All’inizio lei è indispettito dalla loro inclinazione postmodernista, dal loro “metodo demolitivo”. Ma alla fine del libro una di loro, Mariëlle, le chiede se anche lei, ormai frustrato «dalle granitiche certezze degli esegeti dei crani», non si sia «convertito al postmodernismo». Lei però insiste: un conto sono i fatti, un altro la narrazione
«Scrivendo il libro sono cambiato. Ho scoperto che abbiamo a disposizione davvero pochi fatti. Ma non posso smettere di pensare che siano importanti, specialmente in questi giorni, con la guerra in Ucraina. È bene che l’università sia uno spazio sicuro per la letteratura, la filosofia, la critica letteraria. Ma per me rimane un fatto ciò che mi è stato insegnato alle superiori: la densità massima dell’acqua è a 4 gradi celsius. Rispettiamo i fatti, prendiamoli sul serio, veneriamoli di fronte alla propaganda dei Putin e dei Lavrov. I fatti sono la spina dorsale delle nostre esistenze e delle nostre storie. È vero, quindi: sono diventato più scettico sulla quantità di fatti a nostra disposizione, sull’uso che ne facciamo. Ma vanno protetti proprio in quanto beni scarsi. Le storie, che per noi sono importanti, si creano intorno ai fatti. Nel libro cito “Il piccolo principe” di Antoine de Saint-Exupéry per mostrare che cresciamo i nostri figli dandogli sicurezza, protezione, cibo, ma anche storie, favole. Siamo narratori, cantastorie. Le usiamo per navigare, per orientarci tra il bene e il male. So, dunque, che le storie contribuiscono a definirci, so che tanti preferiscono la finzione ai fatti, ma io parteggio ancora per i fatti».

Il ricercatore Joseph Devine, uno dei personaggi di “L’enigma del lago rosso”, dice che occorre «stare attenti a non ordinare i fatti in modo che raccontino la nostra storia. Dobbiamo lasciare ai fatti il tempo di raccontarci la loro». Dopo aver letto “Noi, umani” ci rendiamo conto che anche i paleoantropologi faticano a lasciar parlare i fatti…
«È così, e le interpretazioni che hanno dato ai fossili di ominidi ci raccontano quanto queste letture riflettano la loro immagine del mondo, le domande che si ponevano, i presupposti da cui partivano. C’è un passaggio in cui scrivo che i fossili degli uomini primitivi “venivano lucidati fino a farli brillare, fino a quando non riflettevano l’immagine del mondo dei loro interpreti”. Gli stessi reperti di un cranio, per esempio, sono stati interpretati prima per dimostrare che dopotutto non siamo altro che una scimmia-omicida, una gang di assassini, assetati di sangue, poi, al contrario, per affermare che come specie ci distinguiamo perché prestiamo cura ai più deboli, dunque per la reciprocità. Chi siamo veramente, scimmie assassine o esseri che si curano degli altri?».

I darwinisti radicali direbbero che «siamo solo un prodotto biologico», il frutto di un incidente naturale. Per lei siamo il prodotto «di un particolare tipo di incidente: il deragliamento. Intelligenti come siamo, siamo usciti dai binari della natura», come hooligans all’uscita dalla stadio. Perché questa metafora?
«Nel corso della mia vita la popolazione mondiale è più che raddoppiata. Quando sono nato, nel 1964, eravamo tre miliardi, oggi otto miliardi circa. In termini darwinisti, è una storia di grande successo biologico. Un successo eccessivo. Siamo tanti, come gli hooligans, che vanno in gruppi. Un singolo hooligan è una contraddizione in termini. È il plurale che conta, che porta distruttività. Mi interessa il doppio volto degli umani: creativo e allo stesso tempo distruttivo. Poco distante dalla grotta di Liang Bua, dove ci sono fossili importanti, sull’isola di Flores c’è una fossa comune. Risale al 1965-66, al tempo del presidente Sukarno. In Indonesia ci furono centinaia di migliaia di vittime, probabilmente un quarto di milione, ma è un argomento tabù. Nel viaggio compiuto con “Noi, umani” ho provato a capire cosa ci renda umani. Ho scoperto cose meravigliose. Ma anche che siamo capaci di uccidere i nostri fratelli e tutte le altre specie. Sul fiume Mosa, non lontano da Liegi e dal luogo in cui è vissuto l’uomo di Neanderthal, oggi la popolazione soffoca per l’inquinamento dell’industria metallurgica. La nostra specie inquina il proprio habitat. Qual è, dunque, il nostro vero volto, il volto dell’homo sapiens?».