Il dragone chiede la pace ma non condanna Mosca, sfugge al ruolo di arbitro e dialoga con Africa e Medio Oriente. Non abbandona Putin, ma non può fare a meno di Usa e Ue. Ecco come si sta muovendo Xi Jinping

Mentre Unione europea e Stati Uniti annunciavano le sanzioni contro la Russia di Putin a seguito dell’invasione dell’Ucraina, Pechino dialogava con Sudafrica, Algeria, Tanzania e Zambia. Poco dopo il ministro degli esteri cinese Wang Yi è andato a Islamabad a incontrare i 57 paesi che fanno parte dell’Organizzazione della cooperazione islamica. Poi, prima di andare in India per un incontro bilaterale, Wang Yi è passato da Kabul per incontrare i talebani.

 

Questi movimenti della diplomazia cinese ci consentono di interpretare in modo più chiaro la posizione di Pechino sulla guerra in Ucraina: se da un lato la Cina ha ribadito la necessità di giungere a una pace, dall’altro non ha mai condannato pubblicamente Mosca. Anzi, al proprio interno i media nazionali hanno per lo più diffuso la narrazione russa, complotti compresi, dando spazio sui social solo ai commenti favorevoli a Putin. Analogamente molti diplomatici hanno insistito nella lettura del «doppio standard occidentale», ricordando la necessità – poi ribadita da un incontro tra Wang Yi e Lavrov a margine di un summit tra Paesi confinanti con l’Afghanistan – di un «ordine multipolare giusto».

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Questa narrazione consente infatti a Pechino di proseguire la sua interazione con una parte di mondo che – da europei – non guardiamo con attenzione: Africa, Asia, Medio oriente, continenti nei quali molti Paesi - come Pechino e Mosca – condividono un approccio molto critico nei confronti dell’Occidente e in primo luogo degli Stati Uniti. Naturalmente tutto questo per Pechino potrebbe non essere sufficiente: non isolare politicamente la Russia, per quanto senza supportarla economicamente per il timore di incorrere nelle sanzioni, rischierebbe infatti di complicare le relazioni con Usa ed Europa, determinanti per le sorti economiche di Pechino.

 

La Cina, non a caso, pur senza condannare Mosca ha specificato che la guerra, cioè il caos, quanto di peggio possa esistere per la dirigenza del Partito comunista, è pericolosa per la stabilità economica globale. Ma Pechino sa anche che tirare la corda con l’Occidente potrebbe essere rischioso: Cina e Russia hanno un interscambio commerciale oltre i 140 miliardi di dollari ed era stato posto l’obiettivo di arrivare a quota 250 miliardi entro il 2025. Niente di paragonabile a quello con Ue e Usa, rispettivamente 820 e 750 miliardi. Da questa considerazione consegue l’atteggiamento cinese riconosciuto anche dal mondo occidentale, ovvero di non sostegno palese all’economia russa colpita dalle sanzioni occidentali.

Wang Yi, ministro degli Esteri cinese

Posizione ribadita nei vari incontri intercorsi tra Cina, Usa e Ue. Con Washington Pechino ha cercato di sottolineare la propria estraneità ai fatti ucraini attraverso due momenti diversi: prima nel summit organizzato a Roma tra il consigliere della sicurezza della Casa Bianca Jake Sullivan e il capo della diplomazia cinese Yang Jiechi; sei ore di incontro per preparare la telefonata tra Biden e Xi Jinping, nel corso della quale il presidente cinese, facendo sfoggio di proverbi e parole scelte con grande attenzione, ha sostanzialmente ributtato la palla nel campo avverso.

 

Chi ha creato un problema, deve anche risolverlo: questo il sunto del discorso a Biden di Xi Jinping secondo il quale le responsabilità del conflitto in corso non sono da ricercare solo in Russia. Per questo motivo, secondo Pechino, una soluzione del conflitto deve essere portata avanti da chi l’ha creato: Usa, Nato, Ucraina e Russia. In questo senso la Cina si è anche sottratta ai tentativi di irretirla in un ruolo di mediatrice che, evidentemente, non vuole percorrere: perché non è parte terza (la Cina aveva ottimi rapporti commerciali anche con l’Ucraina) e perché difficilmente Pechino si inerpica in sentieri senza vedere con chiarezza il punto di arrivo.

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Questa posizione di Pechino, proprio in riferimento all’Ucraina, non è nuova. Nel marzo del 2014, qualche giorno prima della «riannessione» della Crimea alla Federazione russa, Pechino e Mosca diramarono un comunicato congiunto, secondo il quale i ministri degli esteri russi e cinesi si trovavano perfettamente concordi riguardo la crisi ucraina. Il comunicato era stato proposto da Mosca e aveva permesso al ministero degli Esteri cinese di precisare che Pechino credeva in una soluzione «pacifica», che non preveda separazioni territoriali.

 

Il portavoce di allora aveva infatti emesso un successivo comunicato nel quale si diceva che «la posizione cinese è da sempre favorevole al non intervento negli affari interni di altri Stati. Rispettiamo l’indipendenza, la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina». Non successe granché, nessuno incolpò la Cina di avere appoggiato la successiva azione russa in Crimea (che Pechino non riconobbe); Mosca e Pechino continuarono nella loro «partnership strategica» senza grandi scossoni.

 

Non ha sorpreso, dunque, l’approccio cinese all’invasione russa dell’Ucraina, otto anni dopo, benché la comunità internazionale, questa volta, si sia premurata di provare a «stanare» in ogni modo Pechino. Senza riuscirci.

 

Nel posizionamento cinese, infatti, rientra un altro dato, specificamente politico. Le relazioni tra Xi e Putin erano appena state consolidate dalla visita del leader del Cremlino a Pechino per l’inaugurazione dei Giochi olimpici invernali. Ne era seguito un documento congiunto nel quale si annunciava una «nuova era delle relazioni internazionali». Xi, molto semplicemente, non può abbandonare Putin per motivi anche personali e di stabilità interna. La posizione di attesa cinese si è evinta anche nell’incontro tra Bruxelles e Pechino, culminato nel summit virtuale tra Xi Jinping e il presidente del Consiglio europeo Charles Michel e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen.

 

L’Ue ha tentato ancora una volta di portare Pechino a essere più esplicita. Ma la Cina non si è scomposta: siamo disposti a cooperare per la pace, non ci piace quanto sta accadendo in Ucraina ma nessuna abiura dell’alleanza con la Russia, ha detto il numero uno cinese. E non solo, perché Xi Jinping ha chiesto all’Ue di essere «autonoma» nella sua relazione con la Cina, un riferimento per niente velato alla considerazione di Pechino circa la dipendenza europea dalla politica estera americana. Ursula von der Leyen – a rendere evidente le difficoltà dell’Ue nell’ottenere risposte certe – ha chiesto alla Cina, quanto meno, di non interferire con le sanzioni. A questo proposito, Pechino ha da subito valutato le sanzioni unilaterali illegali, fuori dal diritto internazionale, pur evitando però evidenti violazioni, come ha affermato di recente il segretario al Tesoro americano, Janet Yellen.

 

Secondo un sondaggio condotto da Fob Shanghai, un forum del settore su 322 esportatori cinesi, il 39 per cento degli intervistati ha affermato che la guerra ha «gravemente» minato i loro affari russi. Come riportato dal Financial Times: «Gli importatori non se la passano molto meglio. Secondo Refinitiv le esportazioni di carbone della Russia verso l’Asia, dove la Cina è il principale acquirente, sono scese a 1,8 milioni di tonnellate nelle prime due settimane di marzo rispetto ai 62 milioni di tonnellate di febbraio». Pechino dunque critica le sanzioni, ma prova a rispettarle non dimenticando che il «tesoro» cinese è nello scambio con Europa e Stati Uniti.

 

Xi Jinping del resto deve fare anche i conti con alcune questioni interne non da poco: gli obiettivi di crescita economica annunciati dal governo cinese (5,5) sono i più bassi degli ultimi trent’anni; la guerra porterà a notevoli problematiche economiche, acuite dalla recrudescenza del Covid-19. In particolare la situazione di Shanghai, nevralgico polo finanziario ed economico, è quella che preoccupa di più.

 

Negli scorsi giorni tutti i 26 milioni di abitanti sono stati chiamati a svolgere test rapidi e molecolari e rimanere in quarantena. La politico «zero Covid» di Xi Jinping non si è fermata neanche a fronte di rischi pesantissimi da un punto di vista economico: il blocco di quasi due settimane di una città come Shanghai, secondo economisti locali, potrebbe creare una situazione identica a quella di inizio pandemia, con conseguenti danni alla filiera globale.

 

Inoltre a ottobre ci sarà il ventesimo congresso del Pcc, quello che sancirà il terzo mandato per Xi Jinping; al momento non ci sono segnali di scricchiolii per la stabilità della leadership ma le conseguenze economiche di guerra e Covid-19 potrebbero pesare e non poco sul futuro del partito comunista e dunque quello del Paese. Problematiche tali da portare a credere che – a meno di eventi clamorosi – la posizione di Pechino non cambierà, portando nell’arsenale delle tante contraddizioni esistenti in Cina anche quest’ultimo apparente ossimoro: condannare la guerra, ma non condannare l’aggressore.