L’esportazione era stata autorizzata dalla Regione ma su presupposti falsi, dicono i pm. Intanto i container spediti due anni fa tornano indietro. E il conto è salato

Il 30 settembre 2019, nel comune salernitano di Polla (circa 5.000 abitanti), Antonio Cancro, amministratore delegato della Sviluppo Risorse Ambientali srl (Sra), autorizzata dalla Regione Campania alla gestione dei rifiuti, firma un contratto di un anno con Mohamed Moncef Mourreddine, rappresentante dell’azienda tunisina Soreplast Suarl. L’accordo prevede la gestione di 120mila tonnellate di spazzatura campana da recuperare (per produrre, sulla carta, tubicini di plastica) e inviare la parte residua a smaltimento finale. Codice europeo attribuito al pattume, il 19.12.12 dei rifiuti solidi urbani che una volta sottoposti a trattamento meccanico-biologico (Tmb) diventano scarti speciali non pericolosi.

 

L’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) riporta che nel 2019 (ultimi dati disponibili), in Campania «i rifiuti speciali esportati sono di poco inferiori a 318mila tonnellate, di cui circa 15.200 sono pericolosi». Perché, nonostante le varie emergenze nella gestione della spazzatura iniziate nel 1994 e il mare di quattrini spesi finora, tuttora non si riesce a gestirli autonomamente.

Per inviare quell’immondizia all’estero serve il via libera della Regione Campania: anche in questo caso arriva, ma secondo la magistratura tunisina (e non solo) vagliando documentazione in parte poi rivelatasi falsa. Persino la procedura seguita, rispetto a quanto previsto dalla Convenzione di Basilea, verrà poi ritenuta errata. Fatto sta che il 22 maggio 2020, dal porto di Salerno, prendono il largo a bordo di una nave i primi 70 container pieni di rifiuti.

All’arrivo a Sousse, superano il controllo doganale e finiscono in un deposito nel vicino villaggio agricolo di Moureddine. Andranno a fuoco il 29 dicembre 2021, all’indomani della visita del nostro ministro degli Esteri, Luigi Di Maio.

I restanti 212 container inviati a seguire, vengono sequestrati dalle Dogane al porto di Sousse: a loro dire, il contenuto non coincideva con quanto dichiarato, violando anche la Convenzione di Bamako. Su quelle 7.981 tonnellate di spazzatura scatta così l’inchiesta tunisina, con una dozzina di indagati e 12 arresti eccellenti, tra cui quello di Mustapha Aroui, ex ministro dell’Ambiente tunisino.

 

Tuttora latitante Mohamed Moncef Noureddine, della Soreplast Suarl. La sua società, anche per la nostra corte di Cassazione, «aveva cessato l’attività prima della sottoscrizione del contratto e non dispone né del personale, né delle referenze necessarie per gestire i rifiuti alla stessa destinati per lo smaltimento, conformemente alla Convenzione di Basilea».

 

Arriviamo così al 24 febbraio scorso, quando la nave Martine A della compagnia di navigazione turca Arkas Container Transports attracca al porto di Salerno riportando al punto di partenza 213 container (uno in più del previsto). Il luogo di stoccaggio temporaneo individuato dalla Regione è il comprensorio militare di Persano (Salerno), nei pressi dell’omonima oasi del Wwf, nella Piana del Sele a vocazione agricola e casearia. Dovrebbero rimanere lì al massimo 6 mesi. Ma ci credono in pochi: oltre a migliaia di roulotte del terremoto in Irpinia del 1980, in quel sito militare restano dal 2008 stoccate «temporaneamente» circa 30mila tonnellate (sulle 70mila iniziali) di ecoballe da smaltire negli inceneritori europei. Ecco perché sono in molti a non volere quei container a Persano.

 

Anche il sindacato Itamil Esercito Campania scrive di «famiglie dei militari (…) preoccupate per la loro salute». Le indagini della magistratura italiana intanto vanno avanti: già indagati tre componenti della famiglia Palmieri proprietaria della Sra, l’ad dell’azienda, due intermediari tunisini e quello calabrese Paolo Casadonte. Avviati inoltre i controlli a campione sui container.

 

Ci sono poi i costi a carico dei contribuenti difficili da stimare. La Sra, proprietaria dei rifiuti, ha consegnato polizze fidejussorie da 6,7 milioni di euro. Ma solo la compagnia turca Arka chiede ben 10 milioni di euro di risarcimento per la perdita economica data dal mancato uso di quei container. Il porto di Sousse vuole dall’Italia 27mila euro per ogni giorno di «parcheggio» nello scalo. Quello di Salerno, secondo la Regione, tra 15mila e 20mila euro ogni 24 ore.

Il 23 febbraio, la società pubblica Ecoambiente Salerno spa ha messo sul piatto oltre 50mila euro per le operazioni di gestione di quei rifiuti diretti a Persano (noleggio mezzi, controlli radiometrici, analisi e campionamento, teloni in pvc). Disponendo inoltre l’anticipo dei costi del loro rimpatrio dalla Tunisia. «Ci faremo carico anche dell’operazione di trattamento finale», ha poi ammesso il vicepresidente della giunta regionale e assessore all’Ambiente, Fulvio Bonavitacola.

 

Fin qui la cronaca di questa imbarazzante vicenda. Ma il problema sarebbe a monte. «Per capire che qualcosa non andava, bastava guardare le carte», denuncia a L’Espresso Stefano Vignaroli (M5S), presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle ecomafie, che assieme alla Direzione nazionale antimafia ha acceso i riflettori sulla vicenda. «Pensare che la Tunisia riesca a recuperare all’80 per cento quella specie di insalata mista è abbastanza ottimistico. Attualmente nemmeno in Italia esistono impianti industriali di quel tipo».

 

Ma allora perché si è scelta la strada del Nord Africa? «Difficile capirlo se non per un risparmio dei costi: 10 euro a tonnellata, rispetto ai 200 euro dei nostri standard», ammette il presidente della Commissione ecomafie. L’altra ipotesi è che «la Sra di Polla riceva e raccolga troppo materiale per i suoi impianti». In Campania quella ditta era già nota per un incendio avvenuto nell’agosto 2020: il secondo in pochi anni.

 

C’è poi la procedura seguita dalla Regione. «Mi sono sentito dire che si sono rivolti al consolato tunisino perché al ministero non gli aveva risposto nessuno. Sull’apposito sito basta selezionare la nazione per trovare focal point e contatti giusti, che non sono quelli dichiarati. Già solo questo dimostra come ci sia stata quantomeno superficialità», continua Vignaroli.

 

Per ambientalisti e magistrati, il vero nodo è invece quel codice 19.12.12 (lo stesso anche delle ecoballe campane).

 

«Come Legambiente denunciamo il problema dall’approvazione nel 1997 del decreto Ronchi», spiega il presidente nazionale dell’associazione ambientalista Stefano Ciafani. «È un escamotage normativo, un’anomalia da modificare, che permette di esportare i rifiuti urbani prodotti in regioni maggiormente sprovviste di impianti. Cosa avvenuta anche per la Tunisia. Nessuna norma europea impone ad un rifiuto urbano che viene biostabilizzato, vagliato e pretrattato di diventare un rifiuto speciale all’uscita».

 

Per Ciafani serve l’autosufficienza regionale nella gestione della spazzatura: «Il ministero della Transizione ecologica ha prorogato il bando degli 1,5 miliardi di euro del Pnrr per gli impianti dell’economia circolare, perché la maggior parte dei progetti sono pervenuti dal Centro-Nord, mentre servono in gran parte al Centro-Sud. Solo così possiamo evitare che i rifiuti girino per l’Italia, l’Europa o finiscano in Nord Africa».

Il magistrato Gianfranco Amendola si occupa da tempo di reati ambientali. A suo dire il caso Tunisia «è un grande imbroglio, perché la verità è che hanno una destinazione illecita. Sullo smaltimento dei rifiuti negli ultimi due anni abbiamo assistito a un’esplosione dell’illegalità e del falso. La Cina non ha più preso i nostri rifiuti e l’Ue ha reso molto più stringente la normativa e gli obblighi nei controlli su quelli urbani. Abbiamo migliaia di casi in cui fanno figurare che sono rifiuti urbani riciclabili destinati a luoghi consentiti, a partire dall’estero, ma poi tramite bolle e certificazioni false se ne perdono le tracce», racconta Amendola.

 

Due anni prima del caso Polla, sempre dalla Campania erano ad esempio finite in Tunisia 520 tonnellate di abiti usati. Le procedure previste dalla Convenzione di Basilea allora erano state rispettate, ma ugualmente se ne sarebbero poi perse le tracce. «Per farli spostare in molti casi basta un minimo di trattamento, cambiando solo l’etichetta e derogando così al principio di prossimità previsto dalla normativa europea secondo la quale i rifiuti urbani vanno smaltiti nel luogo più vicino possibile a quello in cui sono prodotti», aggiunge Amendola.

 

Una parziale soluzione al problema sembra ora arrivare da una sentenza del novembre 2021 della Corte di giustizia europea. Ai giudici comunitari si era rivolto il nostro Consiglio di Stato nell’ambito di un procedimento tra la Regione Veneto e un privato circa la spedizione, per recupero energetico in un cementificio sloveno, proprio di rifiuti 19.12.12.

 

Una sentenza «esplosiva» per Amendola, in quanto stabilisce che una Regione, se vuole, può opporsi a tali spedizioni visto che il trattamento meccanico dei solidi urbani non altera le proprietà originarie del rifiuto: «Dopo quella pronuncia ho scritto all’Ispra per invitarli a fare un’informativa a tutte le Agenzie regionali per la protezione dell’ambiente (Arpa), così da chiarire le condizioni in base alle quali un rifiuto perde le proprie qualità iniziali e può cambiare codice: non mi hanno nemmeno risposto».