La coalizione al potere fino a oggi non ha più la maggioranza. Eletti tredici indipendenti e nove donne. E ora il paese potrebbe passare dall’orbita iraniana a quella saudita

Hezbollah, il potente Partito di Dio che sembrava dover regnare in eterno sul Libano, ha perso la maggioranza grazie alla quale ha potuto condizionare a lungo gli equilibri politici del paese. Mentre Hezbollah e la sua versione laica, il movimento Amal (speranza), hanno mantenuto, insieme, i 27 seggi concessi alla componente sciita dal sistema elettorale libanese, basato su una ripartizione proporzionale dei poteri tra le 18 confessioni religiose ammesse, la coalizione di maggioranza incentrata sui partiti sciiti ha subito un netto ridimensionamento passando da 71 seggi a 62 su 128, lontano dalla quota di 65 necessara ad assicurare la governabilità.

Non sarà quel terremoto generale capace di travolgere il vecchio sistema di potere che i più speranzosi auspicavano alla vigilia, ma sicuramente le elezioni politiche libanesi che si sono tenute lo scorso fine settimana al culmine di una crisi economica senza precedenti e nel pieno disfacimento delle principali istituzioni politiche e sociali, hanno offerto importanti spunti di rinnovamento su cui vale la pena riflettere.

Chiamati alla mobilitazione contro un fatiscente sistema politico basato sui partiti confessionali tradizionali e sul potere personale di alcuni inossidabili Signori della Guerra, gli elettori hanno segnalato una (relativa) volontà di rinnovamento promuovendo 13 personalità totalmente indipendenti, affermatesi durante la rivolta esplosa a partire dal 17 ottobre del 2019 contro la crisi economica e nella lunga battaglia legale per l'accertamento delle responsabilità nella devastante esplosione che il 4 agosto del 2020 ha polverizzato il porto di Beirut e parte del centro cittadino, uccidendo 215 persone e provocando danni per 70 miliardi di dollari.

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Un manipolo di 13 deputati indipendenti non è certo in grado da solo di dettare l'agenda del parlamento, ma potrà giocare un ruolo importante in ogni futuro negoziato. In questa stessa direzione di rinnovamento va anche l'elezione di nove donne, quasi il doppio rispetto alle cinque elette nella scorsa legislatura, fra cui si segnalano altre personalità indipendenti chiamate a ricoprire ruoli che solitamente venivano riservati alle vedove, o alle madri di politici e capiclan uccisi o fatti fuori politicamente.

Il rimescolamento che sembrano segnalare le elezioni libanesi colpisce, oltre a Hezbollah, il principale alleato cristiano del partito di Dio, quel Movimento Patriottico Libero, del generale Michel Aoun che sarebbe stato sorpassato alle urne dalle Forze Libanesi (unica formazione politica rimasta all'opposizione del governo di unione nazionale) del redivivo Samir Geagea, forse l'unico fra i cosiddetti Signori della Guerra impostisi durante la Guerra Civile (1975-1990) ad aver conosciuto il carcere. Geagea è soprannominato il Dottore, per i suoi incompiuti studi in medicina portati avanti durante la detenzione in seguito a condanna per omicidio nelle segrete del palazzo presidenziale di Beirut, condanna che gli è stata poi condonata.

Risoluto avversario di Aoun e degli Hezbollah, Geagea durante gli anni di astinenza dal potere, vale a dire fuori dal governo “inclusivo” nato dall'alleanza tra Hezbollah e Mpl, ha stretto rapporti con l'Arabia Saudita, uno dei due principali giocatori e avversari sul terreno libanese, l'altro è l'Iran. Bisogna dire che Ryad, e segnatamente l'erede al trono e reggente di fatto, Mohamed Bin Salman, ha fatto di tutto per manifestare il proprio disappunto sulla partecipazione di Hezbollah al governo, disappunto pienamente condiviso dagli americani e (più velatamente) dai francesi. Il farsesco, e tragico al tempo stesso, sequestro del premier Saad Hariri, costretto alle dimissioni in Tv durante un suo viaggio a Ryad per incontrare MBS nel novembre del 2017, rappresenta il punto più basso di questa campagna di pressioni. Dopo di che l'Arabia Saudita ha detto di volersi ritirare dalla scena libanese.

Ci ha pensato la grave crisi economica di questi anni, che ha visto la lira libanese perdere il 90% del suo valore, riducendo in cenere salari e pensioni, e decretando la fine della classe media libanese, a richiamare in campo gli sceicchi sauditi, assieme a quelli del Golfo, spesso fra i loro apparentati, i veri sostenitori dell'economia libanese.

Il governo Hezbollah-Mpl, o Nasrallah-Aoun che dir si voglia, merita di essere spazzato via. Questa maggioranza non è stata in grado di reggere né l'urto della rabbia popolare provocata dalla crisi economica che attanaglia il paese, né le pressioni internazionali esercitate dagli Stati Uniti contro la partecipazione al governo di Hezbollah, visto come una sorta di longa manus delle «malefiche manovre espansioniste», questa, la definizione più benevola della diplomazia americana, orchestrate dal regime di Teheran nella regione. Sono stati quattro anni di continui fallimenti, il cui prezzo è ricaduto sulle spalle della popolazione.

La stessa vittoriosa partecipazione di Hezbollah nella guerra siriana a favore del rais Bashar el Assad, a fianco di altre milizie filo iraniane e dei “consiglieri” militari di Teheran, può aver contribuito al successo, in termini militari, dell'intervento deciso nell'ottobre del 2015 da Putin in Siria. Ma se, dopo anni di guerra civile e poi regionale, il regime siriano ha potuto salvarsi, il paese in compenso ne è uscito a brandelli.

Ora, quell'accordo tra cristiani aounisti e miliziani sciiti rischia di saltare. Ma un'atra strana alleanza, basata su ragioni di puro opportunismo, bussa alle porte tra il sunnita Mohamed Bin Salman e il guerriero cristiano Samir Geagea. L'obbiettivo è di sottrarre il Libano alla sfera d'influenza iraniana per inserirlo in quella saudita, una confort zone molto più agevole in tempo di crisi ricca com'è di petrodollari. Qui ormai soggiornano da mesi gli emirati del Golfo, munifici satelliti di Ryad, Uae e Bahrain, con altri paesi arabi in sala d'attesa, legati nientemeno che a Israele da un patto di carta e non d'acciaio chiamato “accordi di Abramo”. Un modo elegante di far passare per intese trascendentali accordi economici e transazioni incentrate sulle tecnologie militari, ma avendo cura di lasciare irrisolti i nodi politici che tormentano da decenni la regione come la guerra coloniale d'Israele contro i palestinesi.

Accetterà il Partito di Dio e il suo dante causa iraniano gli sviluppi strategici che le elezioni libanesi lasciano intravedere? Si rassegnerà Hezbollah alla propria emarginazione? Ogni risposta ipotetica sarebbe azzardata in questa fase. Forse la partita è più ampia di quel che si potrebbe credere. Pensiamo ad esempio al negoziato sul rinnovo dell'accordo sul nucleare iraniano, fatto a pezzi da Trump ma riaperto da Biden ed ora giunto ad una fase davvero cruciale: prendere o lasciare. Grande è l'interesse di Teheran a uscire dall'incubo delle sanzioni. Fino al punto di sacrificare Beirut?