Matteo Carati, l’indimenticabile poliziotto suicida de “La meglio gioventù” di Marco Tullio Giordana, è cresciuto. E ha messo su famiglia. Alessio Boni, classe 1966, attore poliedrico, sex symbol suo malgrado, è “figlio” dell’Accademia nazionale d’arte drammatica Silvio D’Amico, la stessa covata di Pierfrancesco Favino, Luigi Lo Cascio, Fabrizio Gifuni e un professore illustre, Orazio Costa. Ma non provate a chiedergli della sua dura gavetta: la risposta sarebbe lunga come la Quaresima.
E lui, in questa fase della vita, di tempo ne ha davvero poco: si divide come un equilibrista fra i figli Lorenzo, due anni, e Riccardo, sei mesi, avuti dalla compagna, la giornalista Nina Verdelli, il set e il palcoscenico.
Ha da poco concluso la fortunata tournée del Don Chisciotte a teatro e sta per iniziare le riprese di una serie tratta dai gialli di Gianrico Carofiglio, “Il maresciallo Fenoglio”. E c’è il volontariato, quasi un secondo lavoro: Boni è appena ritornato dal confine con l’Ucraina. «Una delle massime che mi è rimasta impressa dall’Amleto di Shakespeare è: “Essere pronti è tutto”. Spesso mi sono sentito inadeguato ma la voglia di scoprire la mia dimensione era più forte».
Si è calato parecchie volte in ruoli di padre, anche nel recentissimo film per Rai 1, “Rinascere”, sulla storia di Manuel Bortuzzo, la promessa del nuoto vittima casuale di un regolamento di conti fra delinquenti. Cosa rappresenta per lei la paternità?
«La paternità tardiva mi ha fatto scoprire una nuova forma di amore e ha sicuramente influenzato il mio rapporto con gli altri e anche quello con la mia professione di attore. Mi pongo molti interrogativi (da qui è nata l’idea di un libro, “Mordere la nebbia”, edizioni Solferino, scritto durante il lockdown, ndr): la vita di prima è completamente diversa da quella di adesso. Nella fiction, come padre ho provato emozioni intense interpretando Franco Bortuzzo: la scena in cui dice al figlio l’amara verità, che non avrebbe più camminato, è stata un doppio salto mortale. Difficile trattenere le lacrime. Ho scavato nelle corde più profonde per rendere l’umanità del personaggio».
Il suo impegno costante per i più deboli e per i bambini di tutto il mondo va avanti da oltre vent’anni. Ce lo riassume?
«Ho girato una trentina di Paesi. Viaggiare per me vuol dire vedere l’altra faccia del mondo, spesso ferito da guerre, pandemie, fame, violenze, catastrofi naturali. Fra i ricordi che porto nel cuore c’è quello di Maria, incontrata nel lebbrosario di Belo Horizonte in Brasile: un mozzicone di donna. Ma aveva gli occhi che brillavano. “Oggi la vita è un mare di rose”, esclamò. La verità dello sguardo mi arricchisce. Senza andare troppo lontano, ho conosciuto i ragazzi che vivono nelle periferie milanesi, a Scampia, a Bari o a Siracusa: spesso non si fidano neppure di loro stessi. Cerco di fargli capire che lo studio, la fatica e la dignità sono indispensabili per andare avanti. Le scorciatoie non esistono. Il conto, prima o poi, arriva per tutti».
Dal 2011 ha scelto di affiancare Fondazione Cesvi, organizzazione umanitaria, nelle sue battaglie: quali sono stati i momenti più impegnativi?
«Per due volte, a distanza di qualche anno, sono andato nello Zimbabwe dove ho visitato l’ospedale Saint Albert, simbolo dell’organizzazione per la lotta all’Hiv/Aids e la Casa del Sorriso che accoglie bambini di strada. Lì si portano avanti progetti di agricoltura sostenibile. In Myanmar ho toccato con mano la piaga della malaria, in Amazzonia ho scoperto gli interventi di protezione della foresta al fianco delle comunità indigene. Ho visitato Haiti dopo la furia dell’uragano Matthew: non dimenticherò mai i sorrisi di chi vive nelle bidonville di Port-au-Prince».
E adesso, l’ultima missione al confine con l’Ucraina, dove transitano mamme e figli che fuggono dagli orrori della guerra.
«Sono rientrato da Sighet, in Romania, dove è attivo un centro di prima accoglienza del Cesvi, nell’oratorio francescano di padre Guglielmo. Attualmente ospita una ventina di nuclei familiari. Molti sono arrivati a piedi, formando colonne umane di 15-20 chilometri. Emblematica la storia di Tatiana, 40 anni, ex modella, bella come il sole, originaria di Kharkiv, prima capitale dell’Ucraina sovietica. Quando ha visto i militari russi pensava si trattasse di un’esercitazione. Invece era la tragica realtà. Ha lasciato marito, padre, madre e fratello, ha guidato per tre giorni fermandosi solo a fare benzina e a comprare da mangiare. Guidava e contemporaneamente allattava sua figlia Kira, 19 mesi, mentre il figlio più grande, Kyrilo, 11 anni, si trasformava in capofamiglia. La mano sinistra di Tatiana era tutta un callo. Raccontava il suo dramma, simile a quello di tante altre donne. Sgomenta. Tesa come una corda di violino. L’Europa l’ha accolta con i suoi bambini, che fanno fatica a dormire. Negli occhi le bombe che esplodono. Ecco, senza lo sguardo dell’altro non riesco a vivere e ad essere come vorrei».