L’impianto da marzo raffina ormai solo petrolio russo, legandosi ancora di più a doppio filo ai destini dello Zar di Mosca. L’Ue a gennaio potrebbe dare lo stop all’importazione. E Giorgetti non risponde al governo regionale che chiede un intervento immediato

In Italia c’è una nuova Ilva che potrebbe scoppiare, con 8 mila operai che rischiano di perdere il lavoro, un deficit energetico e industriale per il Paese enorme e un’area ormai devastata dal punto di vista ambientale che resterebbe solo un gran deserto. E il futuro di questo impianto fulcro di un sistema petrolchimico che da solo raffina un quarto del greggio che arriva in Italia, oggi è tutto in mano da una parte a Vladimir Putin e dall’altra a Ursula von der Leyen, nel disinteresse, al momento, del governo Draghi e del ministro dello Sviluppo economico, il leghista Giancarlo Giorgetti: quest’ultimo distratto forse perché questo impianto si trova a Sud, nell’area industriale di Siracusa: oggi la porta principale del petrolio russo che continua ad arrivare nonostante la guerra in Ucraina e le sanzioni.

 

Occorre sperare che da Mosca continui ad arrivare l’oro nero, perché senza il petrolio di Putin si fermerebbe di colpo il 25 per cento della raffinazione nel nostro Paese, assestando un colpo forte al già fragile sistema energetico italiano, e un colpo mortale all’economia della Sicilia che perderebbe un punto di Pil in un attimo, per un valore di 1,1 miliardi di euro.

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Uno scenario da incubo, che a Roma al momento preferiscono non vedere per non pensare alle soluzioni, che in fondo non ci sono. Il futuro del petrolchimico di Siracusa gestito dalla Isab, controllata dal colosso energetico russo Lukoil, è appeso ad un filo sottile nelle mani in primis del presidente russo. Da quando è iniziata la guerra in Europa, e sono scattate le sanzioni, la Isab non ha avuto più la possibilità di acquistare con crediti bancari nuove partite di petrolio da Paesi terzi rispetto alla Russia. Resta in attività perché formalmente non è stata colpita direttamente dalle sanzioni, in quanto è una società di diritto italiano controllata dalla svizzera Litasco Sa, a sua volta controllata dalla russa Lukoil. Ma i conti sono di quest’ultima, in soldoni: da qui le difficoltà ad avere anticipi di fatture dal sistema bancario per comprare petrolio da altri Stati.

 

La produzione, che lo scorso anno solo alla Isab è stata pari a 7 milioni di tonnellate di greggio lavorato, ha rischiato di subire un immediato stop. Ma qui è intervenuto Putin che ha consentito di aumentare la quota di petrolio russo da inviare in Italia e in particolare nell’impianto siciliano: secondo i dati raccolti dal Financial Times a maggio sono già arrivati da Mosca nel nostro Paese 450 mila barili di greggio, quattro volte quello che importavamo a febbraio e il dato più alto da dieci anni a questa parte. L’Italia è diventata oggi il principale importatore di petrolio russo in Europa e questo incremento è dovuto tutto alla Isab di Siracusa, che per tenere la produzione ha bisogno dell’oro nero estratto in Russia. Che la Isab, al momento, compra anche con uno sconto del 30 per cento rispetto ai prezzi di altri esportatori di petrolio: sta quindi facendo ottimi affari, perché poi rivende a terzi il greggio lavorato agli attuali prezzi di mercato.

 

Ma basta che Putin alzi il sopracciglio e dica «basta» alla vendita di petrolio alla Isab, che subito l’impianto chiuderebbe i battenti. Facendo fermare anche tutti gli altri impianti collegati che, insieme alla struttura che la Lukoil ha acquistato qualche anno fa dalla Erg, lavorano 14 milioni di tonnellate di greggio all’anno, il 26 per cento del petrolio raffinato in Italia: «Qui tutte le strutture sono collegate, per questo parliamo di polo petrolchimico, perché tutto si tiene», dice Giacomo Rota dei chimici della Cgil. Gli altri impianti che ruotano attorno alla Isab dei russi sono la raffineria dell’algerina Sonatrach, la più importante società per azioni dell’Africa, la centrale elettrica della Erg della famiglia Garrone e l’azienda chimica dell’Eni controllata attraverso Versalis. Da un lato, Isab fornisce nafta alla Versalis, la quale a sua volta vende le sue materie prime alla Isab stessa; Sonatrach fornisce materie prime alla Sasol Italy, la quale le trasforma e le restituisce in parte come jet fuel anche a Versalis. Air Liquide vende i prodotti finiti alla Isab e fornisce idrogeno sia alla Isab che alla Sonatrach. Bisogna anche considerare che Erg fornisce energia elettrica vapore e acqua demineralizzata a diverse aziende del Polo, e che circa il 40 per cento del suo fatturato proviene da tale attività.

 

Tutto si tiene. Se uno di questi impianti si blocca anche gli altri praticamente si fermano. Ed è per questo che qui, a causa della guerra in Ucraina, restano con il fiato sospeso migliaia di famiglie. Secondo un corposo dossier inviato dal governo Musumeci al ministero dello Sviluppo economico, in vista anche di una richiesta di intervento dello Stato proprio come accaduto con l’Ilva di Taranto considerando la centralità di questa area per l’industria italiana, in caso di chiusura della raffineria dell’Isab i numeri in ballo sarebbero impressionanti: 8 mila operai resterebbero senza lavoro, il Pil della Sicilia crollerebbe di un punto percentuale, un quarto della raffinazione in Italia verrebbe a mancare e si fermerebbe anche il quarto porto per movimento merci, quello di Augusta dal quale transitano 32.700 tonnellate di prodotti, la grandissima parte legati al polo petrolchimico: Augusta per numeri movimentati è dietro solo ai porti di Gioia Tauro, Genova e Trieste.

 

Ma se da un lato basta che Putin dica stop all’invio di petrolio russo che subito il polo collasserebbe, dall’altro lato il futuro sembra già segnato per Bruxelles: secondo le prime indiscrezioni sulle sanzioni dell’Unione europea in campo energetico, da gennaio scatterebbe l’embargo del petrolio russo e la Isab fermerebbe subito gli impianti. «Di fronte a questo scenario c’è solo una soluzione, un intervento forte dello Stato», dice Rota e dicono in coro tutti i sindacati e anche Confindustria, che quando conviene è per un intervento statale. Il governo Draghi, in caso di vendita dell’impianto da parte della Lukoil, potrebbe intervenire con una Golden power, cioè entrando direttamente nell’assetto societario: ma i russi della Lukoil consentirebbero questo? E, in ogni caso, metterebbero in vendita l’impianto o per ritorsione lo chiuderebbero e basta per creare un danno ad un Paese che sta sanzionando Mosca?

 

Lukoil è da sempre una delle aziende che è stata meno accondiscendente agli interventi del governo di Putin, ma in tempi di guerra tutto cambia: tra gli strani suicidi di manager e oligarchi russi nelle scorse settimane c’è stato anche quello dell’ex amministratore delegato della Lukoil Alexander Subbotin, che si sarebbe sottoposto ad uno strano trattamento a base di veleno di rospo. Ad aprile invece si è dimesso il fondatore e presidente della Lukoil, Vagit Alekperov, per cercare di evitare blocchi ai conti correnti dell’azienda dopo essere finito nella lista degli oligarchi vicini a Putin sanzionati dall’Occidente. Ma c’è di più: la Lukoil è anche tra le 27 aziende le cui azioni sono state sospese dalla Borsa di Londra a inizio marzo per evitare fluttuazioni di mercato. Insomma, anche la tenuta del colosso energetico russo è a rischio e i primi rami a cadere sarebbero quelli periferici e con sede in paesi occidentali, a partire proprio dalla raffineria di Siracusa.

 

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Di fronte a questo scenario cosa stanno facendo politica e istituzioni? Il silenzio è assordante, a Roma come a Palermo. L’assessore regionale alle Attività produttive, Girolamo Turano, braccio destro di Lorenzo Cesa in Sicilia, ha inviato tre lettere riservate al ministro Giorgetti chiedendo «l’attivazione immediata di una tavolo di confronto per dare una risposta alla domanda presentata dalla Regione Siciliana per istituire l’aria di crisi complessa nel polo petrolchimico di Siracusa». L’assessore Turano ha scritto le lettere al titolare dello Sviluppo economico, il 29 marzo, il 13 e il 23 aprile, rappresentando «l’urgenza di un intervento da parte di Roma».

 

Ma ad oggi il ministro Giorgetti non ha risposto. La Lega non sembra interessata, ma allo stesso tempo anche il governatore siciliano Nello Musumeci evita di alzare i toni: cerca di essere ricandidato alle prossime regionali in programma a novembre e ha bisogno del sostegno di Matteo Salvini e della Lega, che invece non vogliono puntare su un suo secondo mandato. Beghe di basso profilo di fronte al problema da affrontare.

 

Ma qui il vero assente al momento è il governo Draghi: l’unica cosa che trapela da Palazzo Chigi e che il dossier Lukoil potrebbe essere assegnato alla viceministra di Giorgetti, Alessandra Todde. Non molto, considerando che qui in ballo c'è una delle infrastrutture chimiche ed energetiche più importanti del Paese, il futuro di 8 mila famiglie e l’ultimo angolo di grande industria in Sicilia e forse al Sud.