Prima Mattarella, poi Di Maio con l’ad di Eni Descalzi. E ora anche Draghi sbarca ad Algeri. Per trattare nuove forniture dal Paese del Nordafrica. Che in cambio vuole stringere un’alleanza per ricevere tecnologia, anche militare

Bisogna orientare la bussola verso il Mediterraneo. In direzione Algeria. La nuova Russia. La nuova destinazione per importare gas metano e scaldare imprenditori, diplomatici, avventurieri e soprattutto politici. Da lì ci si aspetta un terzo dei 76 miliardi di metri cubi di gas che servono ogni anno a Roma. Ancora una volta, in attesa di accedere alle meraviglie delle fonti rinnovabili, vento, sole, mare, l’Italia deve supplicare democrazie non troppo mature per non spegnersi. In senso letterale.

 

Adesso è il turno di Algeri, un luogo fin troppo trascurato, eppure così vicino agli interessi italiani. Roma ha avviato da un paio di anni un’azione di recupero. In passato il gas algerino era in cima alla lista degli acquisti energetici nazionali, poi fu sostituito da quello russo perché più conveniente (forse) per il prezzo e perché più convincente (certo) per i governi e in particolare i loro accoliti.

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L’Italia ha relazioni compromesse con l’Egitto per l’omicidio di Giulio Regeni, benché il Cairo sia il maggiore acquirente di forniture militari tricolori e davanti alle coste egiziane si trovi un gigantesco giacimento di gas targato Eni. E disastrose, lì accanto, sono le relazioni con la Libia, contesa da Francia e Turchia. Non resta che Algeri per fabbisogni energetici e geopolitici. Ciò colloca l’Italia in una posizione di debolezza. Non che l’Algeria sia talmente forte da disdegnare le profferte di Roma. Comprare il gas alle attuali quotazioni per allargare i contratti in vigore - quelli di Enel ed Eni sono del 2019 e non arrivano neppure a 13 miliardi di metri cubi di gas annui - non sarebbe sostenibile per le finanze italiane. Allora si tratta su altri tavoli e ciascuno porta la sua dote.

 

Il 90 per cento delle esportazioni algerine riguarda petrolio e metano, ma il problema è riuscire a produrre anche altro, diversificare, creare benessere: diventare un protagonista del Nord Africa con profondi addentellati in Europa. Qualche anno fa l’Algeria era isolata. Non venne neppure invitata alla conferenza di Berlino sulla pace (mai pervenuta) nella confinante Libia. La Farnesina riuscì a portarla in Germania con l’indispensabile sostegno del governo tedesco.

Luigi Di Maio

Il viaggio di Sergio Mattarella ad Algeri del novembre scorso fu l’occasione per sottoscrivere impegni futuri. E il 28 febbraio, appena pochi giorni dopo l’invasione russa in Ucraina, il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, era in Algeria per chiedere più gas. Lì ha incontrato l’ambasciatore Giovanni Pugliese, che fu suo consigliere diplomatico nel governo Conte I quand’era ministro dello Sviluppo economico. Pugliese seguì Di Maio alla Farnesina e poi fu gratificato dalla nomina in una sede estera di una capitale non considerata di prima fascia. Anche Claudio Descalzi, l’amministratore delegato di Eni, era con Di Maio il giorno della sua trasferta e ai primi di aprile il manager, questa volta da solo, è stato ricevuto dal primo ministro Aymen Benbderrahmane.

 

La multinazionale del petrolio non ha mai sottovalutato l’Algeria. Va notata, invece, la totale emarginazione di Francesco Starace, l’amministratore delegato di Enel. Il gasdotto Transmed, che porta il metano in Italia attraversando la Tunisia, immergendosi nel mar Mediterraneo e riemergendo a Mazara del Vallo in Sicilia, rifornisce Eni, le francesi Edison ed Engie, l’inglese Shell e anche Enel. È naturale che l’Italia preferisca coinvolgere nelle prossime commesse in Algeria aziende a controllo pubblico ed è una notizia che Starace ne sia scientemente escluso. Il motivo è altrettanto intuitivo: meno di un mese prima dell’attacco in Ucraina, Starace disobbedì all’ordine di Mario Draghi di non partecipare a una teleconferenza con Putin. Questo episodio ha troncato la fiducia del premier nel manager, alimentando anche illazioni sul ruolo di Giorgio Starace, ambasciatore italiano a Mosca e fratello dell’amministratore delegato di Enel.

 

Il traffico da e per Algeri è frenetico. Nell’ultimo mese ci sono andati Giovanni Salvini, il procuratore generale presso la corte suprema di Cassazione per stringere un’alleanza sulla giustizia; Nicola Orlando, l’inviato speciale della Farnesina per la Libia; il viceministro Benedetto Della Vedova, per inaugurare il salone del libro di Algeri con l’Italia ospite d’onore.

 

I diplomatici italiani raccontano che i colleghi algerini siano parecchio prudenti. Non passano mai al «tu» nonostante le costanti frequentazioni. Per passare al «tu» sul gas è necessario un evento formale. Un atto di legittimazione. Un nobile baratto di cortesie. Il viaggio di Draghi in Algeria lunedì 11 aprile e il viaggio di Tebboune in Italia entro giugno. Dopo si potrà stilare la lista della spesa. L’Algeria non intende speculare sul costo del gas. Chiede assistenza per le sue forze di sicurezza, facili accordi per materiale bellico, investimenti in fabbriche, aumento dei flussi commerciali, investimenti per le infrastrutture e un supporto strategico per Sonatrach.

Claudio Descalzi

Quanto gas può dare l’Algeria? In che misura le forniture russe potranno essere soppiantante da quelle provenienti dal Paese magrebino? Speranze e ambizioni del governo di Roma vanno confrontate con la realtà dei fatti e con le ragioni della politica. Ed è facile, allora, arrivare alla conclusione che ci vorrà tempo per superare la soglia dei 30 miliardi di metri cubi all’anno, 9 miliardi in più dei 21 miliardi esportati dall’Algeria in Italia nel 2021. L’obiettivo potrà essere raggiunto nell’arco di un paio di anni, nella migliore delle ipotesi. Eppure, nel gran ballo di dichiarazioni di questi giorni, quei 9 miliardi vengono descritti come un traguardo a portata di mano, giusto il tempo di aprire il rubinetto del gas che scorre nei 2.500 chilometri del gasdotto TransMed, meglio noto come Mattei, da Enrico fondatore dell’Eni.

 

I dati esaminati da L’Espresso descrivono uno scenario ben più complesso di quello accreditato dalle fonti governative italiane. Per cominciare, una premessa. Secondo le stime pubblicate l’anno scorso dall’annuario statistico del gruppo Bp, le riserve di gas algerino ammontano a circa 2.300 miliardi di metri cubi. Riserve importanti, certo, ma comunque pari a un decimo di quelle del Qatar e quindici volte meno di quelle russe, solo per fare un paragone con gli altri due grandi fornitori del nostro Paese.

 

Al ritmo di produzione del 2020, che è comunque destinato ad aumentare, il sottosuolo resterà a secco di gas entro 28 anni. Non c’è scelta, quindi. Vanno aperti in fretta altri pozzi per evitare un rapido declino della principale fonte di reddito per il Paese: i proventi della vendita di petrolio e gas coprono oltre il 60 per cento del bilancio statale. E se nel futuro prossimo l’Algeria vorrà davvero aumentare le esportazioni non potrà fare a meno di attingere dai nuovi giacimenti oppure potenziare quelli esistenti. Anche perché gli esperti segnalano che l’estrazione da campi come quello di Hassi R’Mel, il più importante, stia rallentando. Si spiega anche così la svolta politica maturata tre anni fa. Dopo le rivolte di piazza del 2019, culminate con la deposizione dell’anziano e malato presidente Bouteflika, il governo di Algeri, alla ricerca di valuta pregiata per finanziare le riforme e placare le proteste, ha promosso come mai gli investimenti stranieri.

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E l’esplosione dei prezzi dell’energia di questi ultimi sei mesi ha ovviamente consolidato la nuova politica di apertura. L’Eni ne ha subito approfittato. A maggio del 2019 è stato rinegoziato un contratto con scadenza fino al 2029 che prevede una fornitura fino a un massimo di 9 miliardi di metri cubi annui e più di recente è stato dato grande impulso alle esplorazioni del sottosuolo, soprattutto nel territorio del Berkine, 700 chilometri a sud della capitale. La stessa zona dove pochi giorni fa, il 20 marzo scorso, Eni e Sonatrach hanno annunciato nuove scoperte di gas che potrebbero portare a una prima produzione già entro la fine di quest’anno.

 

Non è un caso, quindi, che nel primo semestre 2021, ultimo dato disponibile, la multinazionale di Descalzi avesse importato in Italia 5,35 miliardi di metri cubi di gas algerino contro i 5,22 miliardi dell’intero 2020, un anno peraltro molto penalizzato dal crollo dei consumi per la pandemia. Gli accordi siglati nei mesi scorsi, ben prima della crisi con Mosca, avevano già segnalato il rinnovato interesse di Roma per l’Algeria, a lungo penalizzata negli anni della politica delle porte aperte verso Mosca inaugurata dai governi di Silvio Berlusconi, con Paolo Scaroni alla guida dell’Eni. Mentre tra il 2000 e il 2020 la quota del fabbisogno nazionale coperta dalle forniture russe è passata dal 20 al 38 per cento, il contributo del gas algerino, che ancora nel 2000 valeva quasi il 40 per cento dei consumi italiani, è andato via diminuendo fino al 10 per cento del 2014 (6,7 miliardi di metri cubi) per poi risalire ai 21,1 miliardi del 2021. Ma ancora non basta per fare a meno di Mosca. Ecco allora il numero magico: quei 9 miliardi di metri cubi in più all’anno chiesti da Roma.

 

L’aumento delle esportazioni, però, dovrà avverarsi nel rispetto delle esigenze interne, che assorbono oltre il 50 per cento della produzione nazionale. Tagliare la quota destinata all’industria locale e ai consumi domestici, ampiamente sovvenzionati, potrebbe creare nuove tensioni sociali in un Paese già inquieto. Un rischio eccessivo. Le tensioni con la Spagna, invece, spalancano nuove opportunità all’Italia. L’Algeria, infatti, è da decenni ai ferri corti con il Marocco per la questione della sovranità sul Sahara spagnolo e adesso accusa Madrid di essersi troppo riavvicinata al regno di Mohammed VI. Ecco perché non è da escludere che le forniture di gas algerino verso la penisola iberica, oltre 10 miliardi di metri cubi nel 2021, nei prossimi mesi potrebbero diminuire. Magari per essere in parte dirottate in Italia.