Beirut senza una maggioranza di governo. E i rapporti con la Russia complicati dall’invasione ucraina. Ricomincia la partita per l’egemonia sul Medio Oriente

Si racconta che in questi giorni lo Stato Maggiore israeliano utilizzi per le sue simulazioni quotidiane uno “split screen”. Da una parte dello schermo è rappresentata la situazione nei Territori palestinesi in cui si vede montare una nuova ondata di violenza e, dall'altra, viene descritta l'instabilità del Libano, per niente mitigata dalle recenti elezioni, anzi, forse, esacerbata dall'inconcludenza dei risultati, da cui potrebbe improvvisamente scaturire la scintilla di una nuova guerra contro Hezbollah.

 

Sono passati pochi giorni dalla chiusura delle urne, gli analisti sono ancora lì a scervellarsi sulla lettura di un voto che, ambiguamente, non consente a nessuno dei principali schieramenti di rivendicare una maggioranza in parlamento, che ecco riaffiorare le irriducibili rivalità fra le due fazioni che vantano i risultati più consistenti: il Partito di Dio, punto di riferimento della minoranza sciita, nato negli anni ’80 da una costola del regime iraniano, e le Forze Libanesi, la milizia cristiana maronita su cui la potenza sunnita per eccellenza, l'Arabia Saudita, ha puntato per rimettere piede in Libano, a dimostrazione che in politica tutto si può.

medio oriente
Il voto libanese punisce Hezbollah
17/5/2022

A riaprire il gioco delle recriminazioni è stato il leader delle Forze Libanesi, Samir Geagea, detto il Dottore, l'unico Signore della Guerra che ha pagato con 11 anni di carcere la sua partecipazione a quel pozzo senza fondo di misfatti che è stata la guerra civile libanese (1975-1990). Forte del risultato elettorale che ha visto le Forze Libanesi affermarsi come il primo partito della componente cristiana con 19 seggi, contro i 17 ottenuti dalla Corrente Patriottica Libera del presidente Michele Aoun, Geagea ha subito rivendicato la «sovranità sequestrata dello Stato» e reclamato a gran voce il dovere di disarmare le milizie del partito di Dio.

 

«Sovranità! Di che sovranità vanno parlando alcuni? Dove era la sovranità e dov'era lo Stato nel 1982 (anno della devastante invasione israeliana del Libano, ndr)», ha risposto a Geagea il leader degli sciiti filoiraniani, Hassan Nasrallah, nel suo sermone del venerdì. A salvare lo stato libanese e relative prerogative, ha detto in sostanza Nasrallah, è stata la Resistenza, di cui Hezbollah si è autoproclamato unico erede e continuatore. Da qui il rifiuto di deporre le armi dopo la fine della guerra civile, cosa che, invece, le altre milizie hanno fatto. Un arsenale, quello di Hezbollah, che con i suoi 120 mila missili (che si sappia) a corto raggio, fanteria, droni e quant'altro, è paragonabile, secondo Israele, a quello di una media potenza regionale.

 

Ecco dunque riproporsi su scala libanese lo scontro per il primato che da anni avvelena il Medio Oriente, tra Ryad e Teheran. Che oggi questa partita si giochi in Libano è frutto della pura contingenza elettorale. Ma lo scontro è aperto anche altrove: in Siria, in Iraq, nello Yemen e nelle acque del Golfo e non coinvolge soltanto gli attori locali, ma anche le superpotenze, Stati Uniti, Russia, e in parte anche Cina, da cui le cosiddette potenze regionali ricevono, o non ricevono, il che a volte non è meno rilevante, sostegno economico, politico, o militare. E qui bisogna dare conto di alcuni segnali che indicano quanto il Grande Gioco Mediorientale si stia complicando e alcune certezze rischino di venir meno. Una di queste certezze era ad esempio la benevola indifferenza della Russia verso le incursioni aeree o missilistiche israeliane in territorio siriano, se rivolte a stroncare il trasferimento di armi a Hezbollah o a degradare le infrastrutture militari iraniane in Siria.

 

Dall'inizio della guerra siriana, nel 2011, Israele ha condotto centinaia di queste operazioni. E la Russia, che dall'ottobre del 2015 è intervenuta a sostegno del regime di Bashar el Assad, ed è presente in Siria con due basi, una, aerea, a Khmeimin, presso Latakia, e un'altra navale, a Tartus, ha sempre chiuso un occhio, anche quando ha dovuto pagare dazio, in nome di quello che l'attuale premier israeliano, Naftali Bennet, incontrando Putin nell'ottobre del 2021, aveva definito un rapporto di tipo “strategico” fra i due paesi.

 

Ma poi, a quanto pare, a intorpidire le acque ci si è messa di mezzo la guerra scatenata da Vladimir Putin contro l'Ucraina. Una guerra in cui Bennet si era all'inizio illuso di poter giocare un ruolo da mediatore, evitando di prender posizione, rifiutandosi di armare le truppe di Zelensky e persino evitando di colpire con misure finanziarie gli oligarchi russi con passaporto israeliano che da decenni hanno trovato una comoda sistemazione nello stato ebraico. Posizione molto difficile da mantenere, quella di Bennet, al cospetto di un'opinione pubblica che conta molto e che ha trovato via via naturale schierarsi dalla parte degli aggrediti. Al punto che il ministro degli Esteri, Yair Lapid, ha dovuto condannare l'invasione. Senza contare, infine, l'ondata di indignazione suscitata in Israele dall'intervista di Sergej Lavrov a Rete 4 in cui il ministro degli Esteri russo evoca le «radici ebraiche» di Hitler.

 

Sta di fatto che, per la prima volta, da quando i militari russi sono presenti in Siria, il “telefono giallo” tra Tel Aviv e Mosca istituito per impedire incidenti o scontri non voluti, non ha funzionato e, la notte di venerdì 13 maggio, le postazioni antiaeree di missili S300, offerte dalla Russia alla Siria, operate da soldati siriani ma sotto il comando di ufficiali russi, hanno messo nel mirino gli aerei con la stella di David diretti a bombardare il complesso militare di Maysaf (5 morti e 7 feriti). Nessun aereo è stato colpito ma l'avvertimento è sembrato netto. No comment di Mosca.

 

Se si tratti di un incidente isolato o di un caso destinato a ripetersi sarà il tempo a dirlo. Israele, come ha subito tenuto a precisare il ministro della Difesa ed ex capo di Stato Maggiore Benny Gantz, «non si lascerà intimidire». Il che vuol dire che proseguirà non soltanto la guerra per impedire trasferimenti di armi ad Hezbollah, ma anche il conflitto a bassa intensità contro lo stesso regime iraniano in corso da anni per impedire che Teheran si doti dell'arma nucleare. La vittima più recente: il colonnello delle Unità al Quds (destinate alle operazioni all'estero) dei Guardiani della Rivoluzione, Assad Sayd Khodayari, ucciso con cinque colpi di pistola da due killer appena uscito di casa nel centro di Teheran. L'Ufficiale viene descritto nelle elegie di regime come un «difensore del santuario», vuol dire he aveva combattuto in Siria, vicino a Damasco, dove si trova il santuario sciita dedicato a Sayyda Zaynab, la figlia primogenita del Profeta ivi sepolta.

 

Sono operazioni, queste, a cui quella parte del mondo sunnita che si raccoglie nei paesi del Golfo, Arabia Saudita ed emirati satelliti, guarda con favore. Anche se tra il reame saudita e il regime sciita sono in corso colloqui volti a realizzare una distensione (l'ultimo round ha avuto luogo a Baghdad e si è concluso ad aprile) l'Iran viene sempre percepito come la minaccia numero uno allo status quo regionale. Di conseguenza da Ryad, Abu Dabi e dalle altre capitali del Golfo, in questo perfettamente d'accordo con Israele, viene esercitata una forte pressione sugli Stati Uniti per evitare che il negoziato per il rinnovo dell'accordo sul nucleare (Jcpoa) gettato alle ortiche da Trump nel 2018, e in corso a Vienna da 18 mesi, vada in porto. Di certo, i colloqui sembrano essersi arenati. Alla viglia delle elezioni di medio termine Biden teme di apparire troppo debole agli occhi dei suoi avversari sottoscrivendo un nuovo accordo sul nucleare e abolendo le sanzioni contro l'Iran.