Si è spento a 91 anni il grande giornalista che fece salpare il giornale nel 1955. Il nostro omaggio

Al direttore de “L’Espresso” Lirio Abbate avevo proposto una intervista-storia con Carlo Gregoretti, con Eugenio Scalfari sopravvissuto di quella spericolata pattuglia di giornalisti che, il 2 ottobre del 1955, dalle stanze della redazione in via Pio 12, fece salpare quel brigantino che avrebbe cambiato non solo le regole del giornalismo italiano, ma usi e costumi di una società alquanto bacchettona e cattolica. Carlo ci ha lasciati in un caldo e grigio venerdì del 6 maggio. Aveva 91 anni. Era nato a Roma il 12 novembre del 1930. 

Da Lirio avevo ricevuto l’ok di procedere. Carlo ero andato a trovarlo nel gennaio del 2021, nella sua bella casa in via Raimondo da Capua 5, sull’Aventino, colle di splendide cattedrali e rifugio di gloriosi antifascisti capitanati da Bruno Buozzi, che chiedevano giustizia per Giacomo Matteotti, poi assassinato dagli squadristi di Mussolini. Carlo non lo vedevo da quando la redazione era stata spostata in largo Fochetti. Una volta, in ascensore, mi disse che cercava in archivio alcuni suoi vecchi articoli. Lo accompagnai. L’occasione per andarlo a trovare a casa era non solo di riabbracciarlo, ma di fare uno scambio di libri, alquanto a mio favore. La mia storia de L’Espresso contro il suo “à propos de papà” (così, tutto minuscolo), stampato in proprio e riservato all’adorata moglie Chicchi, ai suoi figli e nipoti, oltre che agli amici più stretti. Con Carlo sono rimasto in contatto e gli telefonavo ogni qualvolta si celebrava una delle nostre feste consacrate: l’8 settembre, il 25 aprile, il primo maggio, il 2 giugno. E naturalmente anche per gli auguri di fine anno.

Molto bella la sua casa, tra librerie in legno stracolme di libri, molti quadri dedicati alla sua passione per il mare, tra marine e barche. Mi regalò il suo libro con questa dedica: “Ad Alessandro, con gli auguri affettuosi di un vecchio amico di famiglia. Carlo G.”.

Memorabilia
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A Carlo ho telefonato un martedì, era il 26 aprile. Gli esposi l’idea di un’intervista che lo divertì e che approvò, ma con una preghiera: «Niente pettegolezzi e visto che sto in pace con il mondo, non voglio farmi proprio ora dei nemici». Lo rassicurai. Avremmo cavalcato quella splendida avventura editoriale con il sorriso sulle labbra e con la giusta ironia; come esempio, gli dissi di farsi mandare da una delle sue figlie la mia lettera a Lirio, “I ragazzacci di via Po”. Mi fissò un appuntamento per le 17 di venerdì 29 aprile. Buttai giù una scaletta di domande. Ma mi arrivò una sua telefonata: «La mia casa è diventata un covo di Covid. Ce lo siamo presi tutti, io, Chicchi, pure il collaboratore domestico e una nipotina...».

Non ho la pretesa di scriver un’intervista postuma, ma mi attengo rigorosamente agli appunti e alle chiacchierate che ho avuto con Carlo.

Riguardo al primo direttore de L’Espresso, Arrigo Benedetti, Carlo mi raccontava che in società era tanto bonario e sorridente, quanto spietato nella sua stanza in via Po. Tutti i giornalisti (pochi quelli a cui era permesso di dargli del tu) dovevano passare sotto le sue Forche caudine. Seduto dietro la sua scrivania, appena illuminata da un lume, afferrava l’articolo, lo divorava con gli occhi e, se non era degno di pubblicazione, lo arrotolava furente e lo gettava nel cestino, urlando al redattore di tornare a riscriverlo in maniera perlomeno professionale. Molti giornalisti, umiliati, vennero visti uscire da quella stanza con le lacrime agli occhi.

Quanto a Eugenio Scalfari, il secondo direttore del settimanale, Gregoretti ammirava la caparbietà: per un certo periodo si trasferì a Milano, per affinare al meglio la sua passione per l’economia. E sapeva muoversi da autentico “ballerino” non solo nei salotti buoni dell’altra finanza e di piazza Affari, ma anche in quelli ben più esclusivi e mondani di donna Crespi, dove si esibiva in ammirati passi da tanghero. Nel suo salotto in corso Venezia Giulia Crespi riuniva l’aristocratica borghesia progressista meneghina. Il suo appartamento lo si raggiungeva salendo uno scalone di marmo con due mori ai lati.

Nonostante fosse un settimanale romano di nascita, L’Espresso parlava italiano in tutte le direzioni. Era chic esibirlo a Torino come a Palermo. Ma Carlo si divertiva molto a ricordare la “cosca del Sud” molto potente in via Po, quella con Eugenio Scalfari, nato a Civitavecchia ma di famiglia calabrese, e Lino Jannuzzi, nato a Roma ma da genitori calabresi. Il,loro “Sancio Panza” si chiamava Ciccio Fittipaldi. «In realtà», mi ha spiegato Carlo, «Fittipaldi, piccolo, grassoccio, molto rubizzo, era lucano e aveva un ruolo fondamentale. Non solo era il Servitor cortese di Jannuzzi, ma era l’uomo incaricato di tutte le incombenze, compresa quella di andare in banca a ritirare le nostre buste paga». Confermo tutto, avendo anch’io conosciuto Fittipaldi, sempre allegro e sorridente, sempre di corsa a saltare tra un autobus e un tram.

Tra i tanti ricordi del suo album di giornalista, Carlo ha ovviamente nel cuore la nascita de L’Espresso. Racconta: «Sì, il numero uno è datato 2 ottobre 1955. In realtà il nuovo settimanale era nato qualche giorno prima in uno scantinato dello stabilimento tipografico Tuminelli, a viale dell’Università 38. La sera del 27 settembre, era un martedì, ci riunimmo in una trentina, tra redattori e collaboratori, l’editore Carlo Caracciolo, Mario Pannunzio assieme ad altri amici del “Mondo” e poche mogli. Quasi “abbracciati “ alle rotative che correvano veloci brindammo con champagne e bicchieri di carta». Un racconto che poi Antonio Gambino ripercorse il 27 gennaio 1985 nell’articolo “Così cominciò l’avventura”.

A proposito di bevute e di grandi bevitori. Un ricordo particolare Gregoretti lo riserva a Giancarlo Fusco, giornalista e scrittore dalla verve anarchica (si legga il suo libro “Duri a Marsiglia”). L’aperitivo serale, dopo il lavoro redazionale, lo celebrava a un tavolino di Canova, in piazza del Popolo. «Dove non si riusciva mai a capire se erano di più i toscanelli che Giancarlo si era fumato o le bottigliette di Campari che gli avevano fatto compagnia».

Carlo, gli chiesi una volta, mio cugino Gianni Corbi che è stato uno dei direttori de L’Espresso”, mi disse che anche Livio Zanetti aveva uno scheletro nell’armadio. E Carlo: «Che Livio da giovane fosse stato fascista in Italia non lo sapeva nessuno, ma sul finire delle prima metà degli anni Settanta la notizia viene diffusa dal settimanale fascista “il Borghese”. C’è anche una foto di Livio vestito con la divisa grigio-verde della Gnr (Guardia Nazionale Repubblicana). In pratica, la Repubblica di Salò. Livio a questo punto scompare. Nemmeno sua moglie Anna Maria sa dove si è rifugiato. Qualcuno ipotizzò perfino che si fosse suicidato». Gianni Corbi mi ha raccontato che fu lui assieme a nello Ajello a rintracciarlo in Alto Adige e a convincerlo che non aveva nulla di cui vergognarsi e a riportarlo a Roma. Bastava il suo impegno con L’Espresso.

Carlo, sei stato una vita a “L’Espresso”. Com’è finita? «Fui io a chiedere a Zanetti di liberarmi dall’incarico di responsabile del servizio Politica interna. Non ce la faccio più, gli dicevo. Tengo famiglia. Non posso andare a casa tutte le sere a mezzanotte, dopo aver passato ore e ore a correggere testi che sembravano scritti sulla carta igienica. Livio ci pensò. Poi mi propose di venire a passare il weekend in campagna da noi, alla Maschiola. “Parleremo con pazienza e con un buon bicchiere”, mi disse. Ma la settimana dopo, un mercoledì, firmò e diffuse il comunicato che nominava Gian Cesare Flesca nuovo capo-servizio per la Politica interna. Il giovedì, prima di mezzogiorno, il direttore (Zanetti), gli editori (Caracciolo e Scalfari) e il direttore amministrativo (Milvia Fiorani) avevano già nelle mani la mia lettera di dimissioni. Quella con L’Espresso è stata una bella storia e non è vero che è finita male, anche se sono uscito da via Po 12 a tasche vuote, cioè senza stipendio ma anche senza liquidazione».

Caro Maestro Carlo. Domani alle 10 verrò a darti una carezza e a portarti una rosa rossa.