I soprannomi, l’ironia, le partite a scacchi. Le barzellette di Umberto Eco, le visite di Cicciolina, i dibattiti con Moravia. E gli aneddoti tra giornalisti. Come quando Agnelli si lamentò di un articolo. E il direttore de La Stampa dell’epoca Giulio De Benedetti rispose secco: «Avvocato, lei pensi a fare bene le sue automobili. Io penso a fare bene il “suo” giornale»

Raccogliendo l’invito degli amici del Cdr, vorrei dare una mia testimonianza.

A “L’Espresso” sono entrato da collaboratore nel 1976 e ne sono uscito nel 2014 come caporedattore. Il settimanale è più giovane di me di tre anni. Ma dal primo numero è sempre entrato nelle mie case. In quel primo numero del 2 ottobre 1955, l’articolo di spalla sinistra nella prima pagina era firmato da mio padre, Nicola Adelfi (pseudonimo coniato da Giulio De Benedetti, direttore de “La Stampa” di Torino, per distinguerlo dal fratello Sandro). A sua volta, Sandro de Feo, mio zio, da quel primo numero firmava la rubrica di teatro.

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Giulio De Benedetti è stato un grande direttore. Onesto quanto indipendente. Un esempio? Quando l’avvocato Gianni Agnelli voleva fare una pazzia per portare alla sua amata Juventus il fantasista Gigi Meroni (numero 7 sulla maglia e ala di diamante del Torino, capelli stile Beatles, calzettoni arrotolati alla caviglia alla Omar Sivori. Morì troppo presto, in una notte piovosa di Torino), De Benedetti chiese a mio padre di scrivere un pezzo per ricordare all’Avvocato che le maestranze della Fiat Mirafiori avevano aperto una vertenza sindacale e che, dalle presse alle catene di montaggio ruggiva gatto selvaggio. “La Stampa” era il secondo quotidiano più venduto in Italia, dopo “Il Corriere della Sera”, molto letto con “l’Unità” dagli operai. Uscito l’articolo, Agnelli fece la prima (e sarebbe stata l’ultima) telefonata a De Benedetti: «Ma quell’articolo… Non mi è piaciuto...». De Benedetti: «Avvocato, lei pensi a fare bene le sue automobili. Io penso a fare bene il “suo” giornale. Se non le sta bene, le mando la lettera di dimissioni». Da persona intelligente qual era, Gianni Agnelli si tenne a lungo quel suo prezioso direttore.

 

Giulio De Benedetti (anche lui un legame con “L’Espresso” ce l’aveva: sua figlia Simonetta aveva sposato Eugenio Scalfari), Arrigo Benedetti, Carlo De Benedetti, Marco Benedetto… Una sorta di nemesi storica per un giornale davvero molto “benedetto”.

 

Arrigo Benedetti è stato il primo direttore de “L’Espresso”. Era molto amico di mio padre. E quando Arrigo era tenuto a Roma per lavoro anche per le feste di fine anno, immancabilmente era ospite alla nostra tavola. Poi arrivò a papà una telefonata della dolce Rina, sua moglie: «Arrigo se ne sta per andare. Vieni, gli farebbe piacere. Siamo all’ospedale Fatebenefratelli sull’isola Tiberina». Papà non se la sentiva di guidare. Mi chiese di accompagnarlo. Nel corridoio davanti alla stanza di Benedetti, papà non riconobbe nessun giornalista de “L’Espresso”. Lo salutarono i colleghi di “Paese sera”, l’ultimo giornale diretto da Benedetti.

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Entrammo nella stanza, appena illuminata da un lumicino sul comodino. Rina era seduta davanti al letto, dove Arrigo aveva gli occhi chiusi e farfugliava frasi senza senso. Rina aveva nelle mani un taccuino e una penna. Faceva finta di scrivere. Rina: «Quando ancora era cosciente, Arrigo mi ha detto che voleva dettarmi l’ultimo suo editoriale e darmi le sue ultime volontà. E mi ha pregato di alcune cose, le sue volontà. Mi pregò di restare serena e tranquilla: lui mi avrebbe protetta anche da lassù. Quanto al suo funerale, doveva essere sobrio, laico e solo con gli amici più. «Ma quella persona, non fatela venire”, mi disse». Il nome di “quella persona”, ovviamente, non lo posso fare.

 

A L’Espresso Sergio Saviane mi aveva soprannominato “il Raccomandato”. E non a torto, visto che mi aveva chiamato mio cugino, Gianni Corbi, che è stato uno dei direttore del settimanale. Per dire quanto fosse ironico e disponibile Sergio, una volta Livio Zanetti lo mandò a Uscio, località famosa per una dieta che si faceva soprattutto sul water, a cagare… Livio chiamò Sergio: «Come va? Che aria tira?». E Sergio:«Ghe xè ‘na gran pusa...».

 

“Arruolato” nella sezione Economia, sotto la guida dell’amico Alberto Statera, il caposervizio (la sua famiglia abitava due piani sotto al nostro appartamento). Il suo vice era Salvatore Gatti, figlio del principale avvocato difensore del giornale, Adolfo Gatti, un principe del Foro.

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Se l’avvocato Gatti è stato il primo penalista de “L’Espresso”, in seguito, visto il carico di lavoro, ovvero le querele per diffamazione, venne affiancato da Oreste Flamminii Minuto. Rispetto a colleghi pluridenunciati, io in tribunale sono stato chiamato 17 volte e 17 volte Oreste mi ha fatto assolvere. Abruzzese duro (una volta, con me testimone alla sbarra, ridicolizzo il Pm Luciano Infelisi. Rivolto al Presidente, disse: «Signor Presidente, ha visto il bel décolletée del signor Infelisi...? Fa caldo a luglio a Roma, ma lui sotto la toga si è dimenticato la camicia...»), ma per me come un padre affettuoso e rassicurante. Per dire quanto fosse stimato ovunque fosse chiamato a difendere “L’Espresso”, ricordo un processo nel tribunale di Arezzo. Io, il caposervizio degli Interni, Maurizio De Luca e Sandro Acciari, eravamo stati denunciati da Licio Gelli, burattinaio della loggia massonica coperta P2, per “violazione di domicilio”. Gelli non c’era; aveva mandato suo figlio Maurizio. Il nostro articolo era stato corredato con delle foto della residenza di Gelli, “Villa Wanda”. Quelle immagini erano state scattate da un fotografo, ovviamente, che Oreste si guardò bene di coprire. Fummo assolti. E il giudice si avvicinò costernato a Oreste, gli strinse la mano e gli disse: «Avvocato, ci scusi per il disturbo».

 

Torniamo a via Po. Avevo 24 anni, pochissima esperienza, ma Statera mi mise subito alla prova e mi spedì a Lecce per uno scandalo di fondi neri della Banca del Salento. Poco prima di tornare a Roma, mi contattò un collega e oggi amico, Lino De Matteis, redattore di un coraggioso giornale locale, “Il Quotidiano di Lecce”, vicino alla sinistra socialista del leccese Claudio Signorile. Lino mi aiutò a fare la cosiddetta quadra dello scandalo che aveva procacciato soldi e affari ai notabili del posto e perfino ad alti prelati. Ma mi fece capire anche che cosa rappresentasse “L’Espresso” in un importante capoluogo di provincia. Un misterioso tam tam aveva fatto sapere in città che era arrivato non certo un giornalista pieno di volontà e alle prime armi, ma “L’ESPRESSO”, il più prestigioso settimanale del paese. Nemmeno fosse arrivato il papa. Il settimanale significava rispetto e rispetto è una delle tante regole che abbiamo imparato a via Po.

 

L’ironia non ci manca. E nemmeno i soprannomi. “L’Espresso” era “la gallina dalle uova d’oro”. Carlo Caracciolo “il Principe”. Livio Zanetti “Il gran bugiardo” (copyright Oreste Flamminii). Paolo Mieli “Zelig”. Mario Scialoja “Vecchio scarpone”. Arrigo Benedetti “Il Tonno”. Ad Arrigo quel soprannome glielo aveva affibbiato suo fratello Mario che sul giornale firmava Agatoni, visto che di Benedetti ce n’erano fin troppi. Diciamo che Mario non era una penna sopraffina e si dilettava più sulla tavolozza che sulla Olivetti lettera 22. Le sue croste le regalava a tutti, una toccò pure a mio padre. Si favoleggiava che per giustificare lo stipendio del fratello, Benedetti lo inviò a fare un servizio all’estero. Ebbene: Mario non fece avere più sue notizie per due settimane e men che meno mandò il pezzo concordato.

 

A proposito di ironia. Quel gran signore napoletano, Nello Ajello, condirettore di Zanetti, era una sorta di Vesuvio. Un esempio: a una riunione di redazione per mettere a punto i vari servizi, la responsabile delle Scienze annunciò una clamorosa apertura dedicata alla balbuzie... E Nello “eruttò”: «Che idea…! C’è già il titolo: “Esclusivo: Come vincere la ba...ba...ba...balbuuuzieee!”».

 

A “Panorama”, il settimanale concorrente, non ci amavano, troppo radical chic, troppo privilegiati. In treno si viaggiava in prima; in aereo in business. E se, per esempio, si scendeva a Napoli, l’Hotel Excelsior ci teneva sempre riservata una camera. Il conto? Veniva spedito direttamente a Milvia Fiorani, il direttore amministrativo, gran signora e sacerdotessa delle note spese. Infine, troppi scoop. Domanda: chi si ricorda uno scoop di “Panorama”? E a proposito di note spese, merita un ricordo anche Paolo Pernici, un cronista di razza un po’ stralunato, impressionante somiglianza con Stan Lauren, e con un punto interrogativo perennemente stampato sul viso. Trovava storie incredibili nelle lande più sperdute della Penisola, ignorate da Dio e dagli uomini. Lui partiva: come, non era un problema. Cosa mangiasse e dove dormisse, un mistero. Non certo desumibile dalle sue ridicole note spese. Una mattina lo vedemmo arrivare in via Po a bordo di una scassata Fiat multipla guidata da un contadino che gli aveva dato un passaggio, e scendere dall’auto facendosi largo tra gabbie di galline e cesti di verdure.

 

Un altro inviato davvero speciale è stato Mario La Ferla. Giornalista della sezione Economia di Milano, lavorava come un mulo tutta la settimana. Sempre sorridente e cordiale, Mario aveva una passionaccia: il calcio. Meglio, l’amato Potenza di cui, se non ricordo male, era anche uno dei dirigenti. Ogni fine settimana scovava e proponeva, ben accetto, servizi nei capoluoghi e nei comuni del Meridione. Guarda caso, proprio dove la domenica giocava il Potenza. Il bello è che gli articoli che portava a casa erano curiosi come Mario, oggi scrittore di libri colti e ricercati.

 

In via Po si coltivavano le passioni più disperate. Carlo Caracciolo, l’ultimo editore puro, da aristocratico qual era amava la trasgressione (e di trasgressioni il suo giornale gliene regalava ogni settimana). Frequentava nobil donne e poi si divertiva con le pazzie di Cavallo pazzo, Mario Appignani (una volta i fattorini lo placcarono mentre se ne usciva dalla redazione con un computer sottobraccio… Su Internet ci sono dei video imperdibili), con gli intrighi di Flavio Carboni, faccendiere piduista, compagno di viaggio a Londra del banchiere Calvi, finito impiccato sotto il ponte dei “Black Friars”, e con i giornaletti di Giuseppe Ciarrapico. Non mancavano le attività sportive: dalle sfide al flipper del bar di via Isonzo, alle partite a tressette (i campioni erano Federico Bugno, Franco Giustolisi, Pierluigi Ficoneri e Francesco De Vito), fino agli scacchi con i maestri Luciano Filippi e il venerabile Manlio Maradei, raffinato massone con baffetti e pizzetto, iscritto allo loggia “Lira e spada”. Ma anche le passioni del cuore venivano molto curate. I triangoli si sprecavano, a cominciare dai piani alti. E se Livio Zanetti apprezzava le virtù teatrali di Adriana Asti, Paolo Mieli andava pazzo per le “Cicacale, Cicale…”, di Heather Parisi; nella stanza del caro direttore Claudio Rinaldi si potevano incontrare le attrici Veronica Pivetti e Jo Champa. Tremavano le segretarie quando arrivava Paolo Milano, che certo non era un adone. Lui era il critico letterario del settimanale. E con la scusa che non sapeva scrivere a macchina, ma si serviva solo della penna, si accomodava ben vicino alla disgraziata di turno e via con la mano morta. Se infine si voleva ascoltare un po’ di buona musica classica, bastava appoggiare le orecchie alla porta sempre chiusa di Mario Picchi.

 

“L’Espresso” di via Po non era solo la redazione di un settimanale, ma un salotto. Venivano Alberto Moravia e Leonardo Sciascia e, magari, ci scappava un dibattito d’autore. E nelle stanze arrivavano gli amici della redazione milanese, all’epoca dislocata in via Cino del Duca 5, ovviamente vicino piazza San Babila. Ecco, per esempio, Umberto Eco che ancora non era diventato Umberto Eco, intrattenerci con irresistibili barzellette degne di Carlo Dapporto. Nei corridoi si incrociavano Ilona Staller e Stefania Sandrelli, una ancora splendida Sandra Milo, di bianco vestita, sotto braccio a Sergio Saviane, anche lui in completo bianco ferragostiano e scarpe da golf: bianche con le bordature marroni. E che dire di Antonio Ligabue. Con quella sua faccia un po’ così, pittore sconosciuto entrò timidamente nelle stanze di via Po. Se ne andò lasciando alcune sue tele appoggiate in un corridoio. Fortunato chi le raccolse.

 

Dal salotto romano al salotto della redazione milanese in una palazzina tra San Babila e via Montenapoleone. Zanetti mi ci spedì “per farmi le ossa”. Bella Milano e affascinante Camilla Cederna. Quando, raramente, veniva in redazione, i capelli castani cotonati, collo di visone a impreziosirle il cappotto, dal bar arrivavano tartine e bollicine.

 

Aperto alle scoperte della scienza, alle innovazioni, “L’Espresso” finalmente si aprì anche alle nuove tecnologie. Si materializzarono sulla parete accanto alla stipite della porta del direttore Zanetti con la forma ovale di una piccola spia. Come ai semafori, diventava rossa se Livio premeva un pulsante strategicamente posto sotto la sua scrivania. Guai, dunque, a entrare. E se solo ci si avvicinava alla porta, la segretaria di redazione, Lily E. Marx, uno scricciolo di signorina (guai a chiamarla signora) faceva scudo con i suoi 45 chili. Che cosa facesse Zanetti è uno dei misteri di via Po.

 

Snob sui campi di tennis e precursori in quelli d’erba dell’hockey, arditi sui campi dell’Acqua Acetosa, nelle sfide contro “Panorama”. Un mio ricordo di una chiacchiera-intervista per quel mio libro sulla storia de “L’Espresso” da vent’anni ancora inedito e di cui possiedo ben due copie rilegate... con uno dei difensori del settimanale, Oreste Flamminii Minuto: «Gambino era un assassino. Era pericolosissimo in quanto metteva una tenacia bottusa e ostinata nel difendere la palla e così, se uno si avvicinava, lui cominciava a tirare calci all’indietro, come un mulo... Zanetti, il “Farfallino” (volava dalla difesa all’attacco), era il regista, in redazione come sul campo. Corbi, poco tecnico ma terribilmente caparbio, era soprannominato il “Lupo marsicano”. Della rosa interclassista facevano parte anche gli amministrativi e i fattorini. Ugo Gazzini, driblomane dal baricentro basso, con Roberto Paris (marito di Milvia Fiorani) e Mario Perosillo erano i corazzieri della linea di difesa. Un’ultima annotazione pallonara. Claudio Rinaldi era un ultras della “Magica”. Una volta un fattorino andò a casa sua per portargli forse la mazzetta dei giornali, e lo trovò seduto davanti alla tv intento a seguire l’amata Roma con tanto di maglietta giallorossa con dietro il numero 23 e il nome del difensore della Roma Alessandro Rinaldi.

 

Lo sport si praticava anche nelle pagine dedicate al tempo libero, pardon, agli hobby. I muscoli da allenare erano quelli del cervello con il bridge e gli scacchi. Al tavolo verde, a proporre ogni settimana un problema (“in due o tre mosse” Giorgio Belladonna che con Benito Garozzo formò quel formidabile Blue Team che dominò la scena internazionale. Bottino: 10 titoli mondiali, tre ori olimpici, cinque podi europei. Politicamente un po’ destrorsi, tanto che in gara non indossavano la tradizionale maglia azzurra, ma la camicia nera. I quesiti da scacco al re erano di competenza del maestro Giorgio Porreca, più volte campione d’Italia, una laurea in Letteratura e lingua russa e autore di numerosi libri dedicati ai maestri dell’arrocco.

 

Ma che razza di mestiere è il nostro? Leggiamo nella bacheca del Cdr di via Po quanto vi affisse Antonio Gambino. Il compitino di suo figlio. La maestra delle elementari aveva chiesto ai suoi scolaretti un pensierino sul lavoro di papà e mammà. Il figlio di Gambino “sentenziò”: “Mamma lavora. Mio padre, invece, fa il giornalista”…

 

Restando in quel lungo e stretto corridoio di via Po, dove quando arrivava sempre incazzato Alberto Moravia, ci ci stringeva alle pareti, in uno stanzino c’erano i correttori delle bozze. Tutti insieme, tutti in famiglia. Una grande famiglia. Anche per i correttori. Erano quattro, ma ne ricordo tre. Una gentile signora, un riccioluto capellone biondo che, si diceva, aveva un doppio lavoro, gestiva un locale o qualcosa di simile e arrivava in via Po a bordo di una Porsche. E Tamaro (chissà come si chiamava) triestino triste e solitario, ma sempre elegante, in giacca e cravatta. Era il padre di Susanna, la scrittrice di “Va’ dove ti porta il cuore”, ma fra loro non c’erano rapporti.

 

Per chiudere, una lectio magistralis del “maestro” Carlo Gregoretti, al settimanale dal 1955. Giornalista raffinato, lo sono andato a trovare un anno fa nella sua bella casa sull’Aventino dove vive con la moglie. E quando la compagna di una vita, Chicchi, si frantumò un femore lo chiamai per avere notizie. Poi gli chiesi: «E tu come stai?». E Carlo: «Malissimo. Ho una brutta malattia: la vecchiaia».

 

Con Scalfari, Gregoretti è l’ultimo superstite di quella navicella che, salpata da via Po, diventò presto un vascello. Oggi Carlo non ha perso l’ironia e lo stile di sempre. A lui l’onore di lasciarci un incipit strepitoso. Livio Zanetti e Nello Ajello non erano solo giornalisti di razza, ma “cani da tartufo”. In tempi non sospetti, Livio e Nello “fiutarono” che l’Argentario, all’epoca un villaggio di commercianti, contadini e soprattutto pescatori, sarebbe diventato il buen retiro di “quelli che contano”. Perfino gli Agnelli si sarebbero regalati una villa. Così, per il numero del 16 agosto 1964, spedirono Gregoretti che, sotto al titolo “Le contesse sul promontorio”, cominciò così l’articolo: «Porto Santo Stefano. C’erano le cernie, dieci anni fa, nelle insenature segrete dell’Argentario. E non si vedevano neppure quelle, perché se ne stavano all’ombra delle rocce, o affacciate sulla soglia delle tane, o sospese a mezz’acqua con la testa rivolta verso l’alto, il colore del dorso confuso con quello delle alghe sul fondo, immobili, come rispettose del paesaggio. Oggi c’è il cane nero della contessa Nina Benini, un piccolo Schnauzer, autostoppista e subacqueo, che scende a Calapiccola chiedendo un passaggio alla corriera dell’albergo, si tuffa dagli scogli, nuota a collo dritto, come un cormorano, per non mandarsi il sale negli occhi; poi torna a casa e fa la doccia».