Avevo visto, nel pomeriggio del 3 giugno, Rafael Nadal battere Roger Federer, il n. 1 del mondo, sui campi del Roland Garros, a Parigi. Non era certo la prima volta che vedevo Nadal. Era stato facile intuirne le enormi possibilità confrontando la sua carta d'identità con il successo sul n. 2 del mondo, l'americano Andy Roddick, nel match che aveva dato l'avvio alla vittoria della Spagna sugli Usa, nella finale di Coppa Davis del novembre scorso a Siviglia.
Il mestiere di spettatore professionista mi aveva poi condotto a cantare le sue gesta nelle recenti, vittoriose prove di Montecarlo e Roma, che fanno parte delle Superseries, e cioè di due delle nove gare mondiali di maggior importanza, seconde solo ai quattro grandissimi tornei chiamati Grand Slam. In quel pomeriggio parigino, Rafael Nadal aveva battuto Roger Federer con le sue forze sottili, ancor prima che con la tattica offensiva, col suo spaventoso diritto colpito da destra verso sinistra. Insieme al golf, il tennis è vicenda che si svolge prima di tutto all'interno di noi stessi, per poi esternarsi non solo nei colpi, ma nel linguaggio del corpo. Mi era parso che mai, nemmeno per un istante, Rafa avesse dubitato di poter vincere. Il suo faccino infantile era stretto come il pugno che brandiva a ogni scambio difficile risolto in proprio favore. Segnato il punto, si librava per un istante con un saltello faunesco, fletteva il braccio destro, chiudeva il pugno per inviare un messaggio visivo all'avversario: un'occhiata non cattiva, non provocatrice, ma perforante. Una sottolineatura di quanto era appena avvenuto, e di quel che si preparava a verificarsi.
Roger Federer è, tra i contemporanei, il giocatore più completo. Più completo anche di Nadal. Eppure, di fronte a quella sorta di dinamo umana, di quella irradiazione di forze sottili, Federer si era via via smarrito, e infine contrariato con se stesso, atteggiamento perdente se ce n'è uno. Questo pensavo in una pizzeria degli Champs Elysées dov'ero capitato per caso, di fretta.
A un tavolino d'angolo sedeva il giovane campione, insieme a suo zio Toni, prima ancora padre putativo che allenatore, e a un altro ex-tennista, Carlos Costa, ora agente di Rafael. Dopo qualche minuto, un cameriere chiacchierino ebbe a informarmi che quegli spagnoli mangiavano sempre lì, mangiavano quasi sempre pizza o pasta, erano tipi tranquilli quanto gentili. Il mio angolo visivo era ideale. Non che non avessi visto mai Nadal da vicino. L'avevo addirittura intervistato, insieme a due colleghi inglesi, ero stato addirittura utile, con il mio modesto spagnolo, a chiarire qualche interrogativo, visto che il giovane parla giusto basic english. Ma, quando si intervista, si fa maggior attenzione alle parole; così come quando si assiste al gioco, si fa maggior attenzione ai gesti. Da quel mio tavolino, osservavo per la prima volta il viso, le espressioni. E mi sorprendevo nel notare la tranquillità, addirittura la dolcezza, sottolineata dalla curva quasi infantile delle gote, dalle labbra carnose: connotazioni che, insieme ai lunghi capelli ondulati, lasciavano affiorare, a tratti, un suggerimento di femminilità. Come una simile pacatezza, una simile dolcezza, subisse un'assoluta metamorfosi, trasformandosi in guerriera implacabilità, trascende la cultura dello scriba, che ha del dottor Freud una conoscenza poco più che scolastica.
Era, certo, addirittura ovvio, pensare al Dottor Jekyll e Mr Hyde di Stevenson, o rimemorare i due ritratti marmorei del Cardinal Barberini firmati dal Bernini, o addirittura, come osserva Flavio Caroli nel recentissino "Le tre vie della Pittura", rabbrividire di fronte all'Innocenzo X del Velázquez ferocemente rivisitato da Francis Bacon. Ma rimaneva, e rimarrà a lungo, il dubbio sulla dicotomia tra il grande bambino dolcissimo, e l'implacabile assassino da sport, che potrebbe forse diventare il nuovo Borg del tennis mondiale. Lo svedese Bjorn Borg, ricordo ai non addetti, vinse non ancora diciannovenne il suo primo Roland Garros nel 1974. Il suo gioco era, allora, una novità, che giungeva insieme ai primissimi mutamenti nei materiali di costruzione delle racchette. Alla sua propria destra, Borg colpiva un diritto che, dal perno del gomito, faceva percorrere all'avambraccio una semi-circonferenza, impartendo alla palla una rotazione in avanti detta lift . Sulla sinistra, impugnava il manico con due mani, gesto che suggerì allo scriba il neologismo bimane. E, con un movimento mutuato dall'hockey, suo sport d'infanzia, colpiva certi passanti che scoraggiavano l'avversario appostato a rete. Quando lo svedese strappò quel primo Grand Slam, pochissimi critici osarono affermare che una simile vicenda non solo non fosse casuale, ma sarebbe continuata anche sull'erba di Wimbledon. I prati, infatti , sembrerebbero proibiti a chi non colpisca - diciamo in gergo - attraverso la palla, a chi non sia in grado di attacchi senza soste, e di decisivi colpi al volo. Borg non pareva aver niente di tutto questo. Ma, come Nadal, era divorato da una brama infernale. Lungi dal cambiare gesti, seppe adattarli tanto bene ai prati che finì per vincere ben cinque volte di fila quel che resta il più grande torneo del mondo.
Tutto ciò mi è venuto a mente mentre sentivo Nadal parlare a una trentina di colleghi spagnoli, dopo che era finita la prima parte della conferenza stampa, quella che si svolge in inglese. Goffo sino alla banalità nell'inglese d'accatto, Nadal si esprimeva nel suo spagnolo di accento maiorchino con assoluta precisione, ludicidità, e addirittura humour. L'affermazione più interessante mi parve quella in cui sottolineò di non aspirare a essere un tennista immortale. Vorrei - avrebbe affermato - essere il migliore dei miei tempi, e connotare questi anni con il mio nome. Dichiarazione che potrebbe suonare presuntuosa, se non delirante, a chi non fosse stato lì, a sorprendersi per la serenità e l'assoluta mancanza di presunzione racchiuse in quelle parole. Che poi Nadal riesca davvero ad affermarsi come un tennista all courts, lui che sembra avere, per ora , soltanto le caratteristiche tipiche dei campi rossi, è ipotesi non facile da percorrere. Anche perché, battuto a Parigi, Roger Federer prenderà quasi sicuramente la rivincita a Wimbledon. E ancora perché alle spalle dei due sta affacciandosi un altro genio della racchetta, il francesino Richard Gasquet. Ma tutto ciò riguarda il futuro, ancorché immediato.
Il passato prossimo di quel che gli spagnoli chiamano Rafa è vicenda di totale predestinazione. Nasce il 3 giugno 1986 da famiglia borghese e vivamente sportiva, nell'isola di Maiorca. Degli zii , uno, Miguel Angel, è calciatore del Barcellona e della Nazionale, un difensore che mette paura. L'altro, Toni, è insegnante di tennis, e, ammaestrato da simili Chironi cresce il giovane Achille, a bordo spiaggia, già proprietario di una barchetta, quotidiana insidia ai pesci. Destro nel tracciare le prime lettere sui banchi delle elementari, diventa tennista mancino il giorno in cui, vedendolo rinviare una palla fuori portata, zio Toni lo irride: «Perché non ci provi davvero, con la sinistra?».
Ed eccolo mancino per sempre, nonostante nel rovescio bimane la mano destra abbia parte non secondaria. Non solo nel tennis, il piccolo Rafa appare straordinario, ma anche nel calcio. Intorno ai dieci anni, il consiglio di famiglia decide che sarà una star singola, e non un qualunque pedatore di successo imbrancato con altri dieci. Iniziano d'allora le prime affermazioni, addirittura internazionali, in una famosa gara under 12 che si svolge ad Auray, in Bretagna. Di qui l'approdo tra i grandi, che lo condurrà al professionismo, a un'ascesa-discesa vertiginose, dal n. 818 nel 2001, tra i primi cinquanta nel 2003, a uno stop per una frattura da stress all'anca sinistra, perno troppo sollecitato dei suoi gesti violentissimi. Nel dicembre 2004 l'atleta era però tanto ristabilito da riguadagnare le luci della ribalta nell'incontro che lo segnalava all'attenzione internazionale, la vittoria in Davis sugli Usa citata all'avvio, sotto gli occhi di 26 mila aficionados in delirio. Ora, a 19 anni compiuti il 3 di giugno, Rafael Nadal ha stabilito un nuovo record, prontamente battezzato "lo Slam del Rosso", vincendo uno sull'altro i tornei di Montecarlo, Barcellona, Roma e Parigi. E non è finita.