Barbara Tomasello, 44 anni, è ricercatrice al dipartimento di Scienze del Farmaco dell’Università di Catania. A tempo determinato. «Scado a febbraio 2023». Poi? «Il nulla. Se non dovesse presentarsi un concorso per ricercatore, farò i conti con vent’anni dedicati alla ricerca di cure innovative, che non mi hanno portato a una stabilizzazione». La sua storia è simile a quella di altri 25.297 ricercatori dell’Università italiana: iper qualificati, precari, dotati di spirito di sacrificio e con una grande passione per il proprio mestiere. Altrimenti non si spiegherebbe perché trascorrono svariati decenni nei laboratori di università che non garantiscono alcuna certezza.
I questi giorni Camera e Senato stanno discutendo e approvando il decreto Pnrr2 al cui interno c’è un emendamento che di fatto dà il via libera a una riforma dell’Università, «all’insegna del contrasto alla precarietà», secondo il primo firmatario e senatore del Pd Francesco Verducci. Una riforma indispensabile, visto che sulla ricerca pioveranno 17 miliardi di euro del piano di ripresa e resilienza. Tuttavia fra i ricercatori c’è meno entusiasmo: «Leggeremo il testo definitivo per capire se ci sarà una svolta sostanziale», dice Barbara Tomasello. Nel suo caso la nuova legge prevede la stabilizzazione come professore associato, ma solo dopo un altro concorso, e altri anni come ricercatore.
L’ultima volta che lo Stato ha messo mano all’Università italiana era il 2010 con la riforma Gelmini, che ha portato a un depauperamento dell’università in termini di personale a tempo indeterminato. L’organico stabile è sceso dai 62.768 professori del 2008 a 46.245 nel 2020. Sono invece cresciuti i ricercatori, precari per definizione (visto che la Gelmini ha eliminato quelli a tempo indeterminato), passati da 12 a 25mila. A cui si aggiungono 30mila professori a contratto, sostanzialmente chiamati per insegnare un solo corso e retribuiti a forfait, e 32.185 dottorandi che spesso suppliscono alla penuria di docenti salendo in cattedra. L’iter per diventare docente dura almeno 11 anni: prima tre anni di dottorato, poi cinque di assegno di ricerca e si approda al concorso per ricercatori, che è di due tipi, A e B. Il primo prevede un percorso quinquennale che sfocia nel nulla, perché non può essere rinnovato e non arriva alla stabilizzazione. L’altro dura tre anni e consente di accedere a un contratto a tempo indeterminato come professore associato, dopo aver ottenuto l’abilitazione scientifica nazionale.
Grazie alla riforma contenuta nel decreto Pnrr, è stato abolito l’assegno di ricerca, sostituito dal contratto di ricerca. «L’assegno di ricerca non godeva di ferie, malattia o indennità di gravidanza. Non era neppure una collaborazione coordinata e continuativa. Per capirci, quando il primo decreto Covid ha offerto un contributo economico ai precari, gli assegnisti sono rimasti esclusi anche da quello. Il nuovo contratto di ricerca garantirà più tutele, ma resta una forma di lavoro a tempo determinato», spiega Luca Galantucci, ricercatore e fisico, migrato in Inghilterra per continuare a lavorare, e attivista di Università Manifesta: «Tornerei in Italia anche subito, ma non ci sono le condizioni per la stabilizzazione». Galantucci racconta che la riforma dell’Università era in discussione già da un anno e, dopo un presidio difronte a Montecitorio, lo scorso autunno i ricercatori sono stati auditi in Commissione al Senato: «Si stava costruendo una riforma complessiva. Poi l’urgenza di chiudere il ddl Pnrr2 ha spinto il governo a prendere alcuni pezzi di quella riforma e inserirli in un maxi emendamento. È l’ennesima decisione calata dall’alto, che lascia intatta la precarietà di questa professione», commenta Galantucci.
Fra le novità, viene introdotto un unico modello di ricercatore, sostituendo quello di tipo A e B, della durata di sei anni e con la possibilità di diventare professore associato già dal terzo anno: «Ma deve essere il ricercatore a fare richiesta e, realisticamente, saranno fatte pressioni affinché la domanda avvenga al sesto anno. Inoltre, e questo è molto problematico, la valutazione non avviene solo in base all’ottenimento dell’abilitazione scientifica nazionale, ma superando una prova didattica i cui criteri sono completamente soggettivi. Mentre prima il passaggio da ricercatore di tipo B a professore associato era automatico, ora c’è la valutazione di una commissione locale, in cui le dinamiche sono, per usare un eufemismo, non esattamente trasparenti», racconta il ricercatore.
Con la riforma, anziché ridurlo, si allunga il calvario da precario ad almeno 14 anni: tre di dottorato, cinque di contratto di ricerca e sei da ricercatore. «Invece negli altri settori, inclusi gli enti pubblici di ricerca, come il Cnr, il periodo di precariato è di 36 mesi e poi c’è la stabilizzazione». Inoltre, la riforma lascia inalterata la possibilità di bandire per tre anni i contratti di ricercatore di tipo A, «che finiscono su un binario morto e riceveranno la grossa fetta dei finanziamenti stanziati per l’Università nel Pnrr. Quando termineranno quei soldi quale destino avranno quei ricercatori? Non saranno rinnovati. In sostanza si tratta di una riforma a costo zero, che non modifica il declino dell’università, dove il personale è sempre più precario. Inutile dire che non servirà a riportare in Italia ricercatori o ad attrarne di stranieri», perché in Francia e Germania la stabilizzazione avviene entro i 32-35 anni di età, mentre la media italiana supera i 45 anni.
In un sondaggio realizzato dal Cnr è emerso che la priorità per i ricercatori è la necessità di un reclutamento costante, con una certezza dei concorsi, evitando le maxi sanatorie. Richiesta rimasta inascoltata nella riforma.
Come racconta Daniele Archibugi, ricercatore e autore del libro “L’Apprendista stregone, Consigli, trucchi e sortilegi per apprendisti studiosi”, Luiss University Press, che scrive: «Per una intera generazione, i posti banditi sono stati pochissimi, spesso perché gli organici erano già stati riempiti con sanatorie, idoneità, concorsi riservati e quanto altro ci si poteva inventare per dare un posto fisso a tutti coloro che avevano per qualche giorno appeso la giacca su un attaccapanni di qualche Facoltà. Si sono così riempiti i ranghi con tanti studiosi meritevoli ma anche con persone che studiose non lo erano affatto. In queste condizioni, è giocoforza che gli studiosi più motivati e talentuosi preferiscano lavorare in Paesi in cui le progressioni di carriera avvengono con maggiore regolarità».
In Italia è necessario attendere oltre i quarant’anni per la stabilizzazione, come è successo ad Antonio Zuorro, Ingegnere Chimico e ricercatore all’Università Roma1: «Salvo sorprese, in autunno sarò nominato professore associato a tempo indeterminato. Ma ho 44 anni. I compagni di corso che hanno scelto una carriera nell’industria privata o hanno proseguito all’estero guadagnano tre volte tanto e sono stati stabilizzati da almeno un decennio», dice Antonio, che è anche a capo dell’Associazione ricercatori a tempo determinato, Arted, una delle sigle coinvolte nella riforma del preruolo universitario: «È una revisione migliorativa, perché elimina l’assegno di ricerca e il doppio binario dei ricercatori. Teoricamente, con la nuova riforma, una volta diventati ricercatori si ha la certezza della stabilizzazione alla fine dei sei anni, ma permane il problema del precariato, che non consente di accendere un mutuo, per esempio. Anche gli stipendi sono inadeguati al costo della vita delle città e succede che il ricercatore diventa una professione d’élite: non proseguono i più meritevoli ma chi se lo può permettere». Ecco perché, come scrive il Cnr nella terza edizione della “Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia” la media degli italiani con dottorato è lo 0,5 per cento, contro l’1,2 dell’Europa. Sono 12mila i ricercatori migrati in Austria, Svizzera, Francia, Regno Unito, Spagna e Usa a fronte di trentamila dottorandi in Italia.
La fuga di cervelli è inesorabile e, come spiega Maurizio Masi, professore di Chimica Fisica Applicata al Politecnico di Milano e segretario Uspr, unione sindacale professori e ricercatori universitari: «Da noi un professore ordinario guadagna meno di un post doc Marie Curie europeo: in Italia il primo stipendio è di 2.900 euro lordi, mentre un ricercatore francese ne guadagna 2.800. Per essere attrattivi dovremmo almeno raddoppiare gli stipendi. Un neolaureato al Politecnico guadagna 1.700 euro netti al mese, mentre una borsa per il dottorato vale fra i 1.100 e i 1.400 euro mensili, vuol dire che il mondo della ricerca italiana non è competitivo. Una soluzione potrebbe essere quella di consentire ai dottorandi e ai ricercatori di lavorare anche per le imprese private, ma nonostante la liberalizzazione dell’attività di consulenza sia stata introdotta nel 2010, di fatto è stata stoppata da una sentenza della Corte dei Conti». E a proposito della riforma: «Non basta. Quello che i giovani chiedono per fare ricerca in Italia sono le infrastrutture, la continuità dell’attività di ricerca e un fondo destinato non all’Università ma ai progetti dei ricercatori. I soldi vanno dati ai ricercatori, non alle università. All’estero funziona già così».
Non da ultimo c’è il problema della scarsa presenza femminile. Dice il Cnr che solo il 37 per cento delle donne sceglie una materia scientifica e, benché metà degli studenti e dei dottorandi sia donna, queste si diradano con il proseguire della carriera. Lisa Vaccari, 48 anni, responsabile di uno dei laboratori del Centro di ricerca Elettra Sincrotone di Trieste, racconta che per una donna ricercatrice ci sono due momenti critici: «Il primo è la conciliazione fra maternità e precarietà. Spesso si posticipa la prima, come nel mio caso. Sono rimasta incinta poco dopo la stabilizzazione, ho avuto una figlia e sono rientrata al lavoro tre mesi dopo il parto. Rimpiango di non aver avuto il tempo per un secondogenito, ma non posso lamentarmi perché immagino che molte colleghe abbiano rinunciato in toto alla maternità. Il secondo momento difficile è segnato dalla difficoltà di destreggiarsi fra la carriera, una volta raggiunto il contratto a tempo indeterminato, e la cura dei figli. È complicato, perché c’è un atteggiamento sessista nei confronti delle donne, basato sulla convinzione che solo agli uomini che ambiscono a un ruolo di responsabilità sia consentito il compromesso fra presenza fisica ed emozionale con i figli. Il caso di Samantha Cristoforetti, criticata perché ha lasciato i figli alla cura del padre, mentre lei è partita per una missione spaziale, la dice lunga sul tipo di cultura ancora troppo maschilista che vige in Italia».
Un sistema più attento alla parità di genere, fondi nelle tasche dei ricercatori e per la creazione di laboratori innovativi, meno precariato, più meritocrazia, certezza dei bandi, un accesso più rapido al mondo della ricerca scientifica e stipendi in linea con quelli europei. Eccola la riforma che chiedevano i ricercatori italiani. E che ancora non c’è.