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Attualità
luglio, 2022

«Io, ricercatore emigrato, sono tornato in Italia. Ma qui è tutto molto più difficile»

Gianvito Vilé è un’eccezione ed è potuto rientrare anche grazie a finanziamenti privati. «Fare ricerca in Italia non è facile, perché esistono pochi fondi e il grado di successo è basso. Ci sono ottime storie di ricerca, ma fioriscono su un terreno più arido e impervio rispetto al resto d’Europa»

Ricercatore al Politecnico di Milano, Gianvito Vilé, 34 anni, diventerà professore fra due anni. Un’eccezione che conferma la regola?
«Mi sono laureato al Politecnico, ho conseguito un dottorato a Zurigo e poi sono tornato a Milano per fare il ricercatore. Qui ho un mio laboratorio, finanziato grazie al Politecnico e ai fondi dell’azienda farmaceutica Bracco. Senza il contributo da un milione di euro dell’industria privata non sarei qui».

 

Un cervello tornato in Italia, dunque. Cosa ti ha convinto a tornare?
«La possibilità di guidare un laboratorio indipendente. Studio nuovi sistemi catalitici in grado di convertire gli scarti, come l’anidride carbonica prodotta dagli impianti industriali e la plastica, in biocarburante o metanolo, quindi in nuova energia. Potremmo arrivare a una soluzione applicabile, per esempio all’altoforno dell’Ilva, entro cinque anni. Per le sue applicazioni e implicazioni ambientali questo filone di ricerca ha ricevuto quattro finanziamenti europei, più il grosso contributo della Fondazione Bracco: questo denaro mi ha permesso di assumere due dottorandi, un post dottorando e presto entreranno nel team di ricerca altre quattro persone. Fare ricerca in Italia non è facile, perché esistono pochi fondi e il grado di successo è basso, è invece necessario applicare ai bandi europei anche in partnership con altri laboratori europei».

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Quindi fare ricerca in Italia è possibile?
«Richiede dedizione e la capacità di muoversi fra i bandi di finanziamenti pubblici italiani ed europei. La vera critica è che in Italia non abbiamo, come in Svizzera, in Germania, in Olanda, in Austria, un fondo nazionale dedicato al finanziamento delle idee innovative. Ci sono ottime storie di ricerca in Italia, che tuttavia fioriscono su un terreno più arido e impervio rispetto al resto d’Europa. E per questo molti colleghi scelgono di far fiorire il proprio progetto altrove. Succede perché qui manca un’apertura nei confronti dei giovani che hanno idee coraggiose e perché non si è compreso che, per portare avanti un’attività sperimentale, come la mia, servono laboratori attrezzati che costano diverse migliaia di euro e serve tempo per fare esperimenti e arrivare a una soluzione».

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Il Pnrr destina quasi 17 miliardi di euro alla ricerca. L’obiettivo è spendere una larga parte di questi soldi per creare nuove posizioni da ricercatori. Condivide questa impostazione?
«C’è stata una capillare attività che ha consentito di capire dove spendere questi finanziamenti e molte delle tematiche individuate sono ottime. Tuttavia, anziché creare soltanto posizioni per ricercatori, sarebbe stato utile potenziare le infrastrutture esistenti e aprire nuovi laboratori indipendenti, come il mio, offrendo i fondi iniziali per avviare la ricerca».

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