Esclusivo
Uber files, ecco gli italiani che hanno lavorato per il colosso dei trasporti
Renzi e Boschi al governo, Berlusconi fan occulto ma considerato “tossico”. E le pressioni di Carlo De Benedetti che aveva investito sulla app. Chi ha provato a spianare la strada a Uber svelato da un’inchiesta internazionale
Il 25 gennaio 2016 il general manager di Uber in Italia, Carlo Tursi, scrive una mail ai vertici europei della multinazionale: «Ho appena incontrato il nostro azionista Carlo De Benedetti a Lugano. Incontro molto positivo, è impegnato e deciso a sostenerci come sempre». Il manager spiega anche come l'imprenditore italiano si stia spendendo per Uber, virgolettandone alcune parole: «Ha inviato una mail e un messaggio whatsapp al ministro Boschi, mentre ero lì, elogiando i benefici economici per un Paese di aziende come Uber, definendo questo fenomeno "inevitabile" e "inarrestabile" e rappresentandoci come un simbolo di modernità, che dovrebbe essere molto in linea con la filosofia di questo governo, soprattutto di "una millennial" come lei».
L'obiettivo del colosso americano è ottenere dal governo Renzi una norma di favore. De Benedetti, riferisce sempre Tursi ai suoi capi, ha infatti «ricordato» al ministro «l'opportunità offerta dalla legge sulla concorrenza e il "grande lavoro" svolto dai ministeri dei Trasporti e dello Sviluppo economico. Ha chiuso la mail dicendo che è consapevole che ci sono i tassisti e le elezioni amministrative sono alle porte, ma è sicuro che questo governo farà ciò che è giusto per modernizzare l'Italia».
Questi messaggi riservati fanno parte degli Uber Files, oltre 124 mila documenti che svelano i segreti del colosso americano del noleggio di autisti via Internet. Carte ottenute dal quotidiano inglese The Guardian e condivise con l'International Consortium of Investigative Journalists (Icij), di cui fa parte L'Espresso. Tra mille manovre di Uber sui politici di 29 nazioni, i documenti sull'Italia, che vanno dal 2014 al 2016, rivelano una massiccia campagna di pressione sul governo Renzi per piegare agli interessi della multinazionale la legge sulla concorrenza.
Domenica 10 luglio, quando 44 testate internazionali hanno cominciato a pubblicare gli Uber Files, l'autore della fuga di notizie ha deciso di uscire allo scoperto. È Mark MacGann, 52 anni, responsabile fino all’agosto 2016 delle politiche aziendali di Uber in Europa, Africa e Medioriente: il grande capo dei lobbisti. Che oggi spiega al consorzio: «Uber ha giocato con le vite della gente. Io sono disgustato e mi vergogno di essere stato parte di questa politica aziendale volgare e violenta. Convincendo i governi che Uber avrebbe avvantaggiato gli autisti rispetto ai taxi, abbiamo venduto una menzogna alla gente».
MARIA ELENA LADY DI FERRO
I manager americani definiscono Matteo Renzi «un entusiastico sostenitore di Uber». L'allora capo del governo italiano e i suoi fedelissimi sono al centro della campagna di lobby, chiamata «Operation Renzi», diretta a condizionare la legge sulla concorrenza. Come mediatore segreto, la multinazionale ha potuto utilizzare Carlo De Benedetti, che ha confermato al Guardian di essere stato azionista di Uber per molti anni, fino al 2020. Uno dei suoi interventi viene descritto così dal manager Tursi nel giro di mail del 25 gennaio 2016: «De Benedetti incontrerà il ministro Boschi il 3 febbraio e ha detto che ci aggiornerà. Mi ha confermato il suo appoggio incondizionato e la sua disponibilità ad aiutarci». Il dirigente sottolinea che «De Benedetti stima molto» Maria Elena Boschi, al punto da definirla «la prossima signora Thatcher dell'Italia».
Contattata da L'Espresso, l'onorevole Boschi ha replicato con una nota scritta: «Non ho fatto approvare alcuna norma per Uber, non ho mai subito alcuna “influenza” dell’ingegner De Benedetti, che ho visto ovviamente in plurime circostanze istituzionali e conviviali, ma non ha mai posto quel tema. Quanto al paragone con Margaret Thatcher, siamo oltre ogni immaginazione: la lady di ferro ha scritto pagine di storie molto significative ed è stata una donna di grandi capacità, ma nella mia formazione di cattolica impegnata nel sociale è quanto di più lontano dai miei modelli politici». La deputata di Italia Viva precisa che «nel mio unico cellulare privato non vi è traccia del messaggio whatsapp di De Benedetti».
L’ingegnere ha risposto con un breve messaggio: «Non ho mai fatto attività di lobbying per Uber né per nessun altro». In quegli anni era ancora editore de L'Espresso, ma ha rispettato la libertà di stampa senza pressioni sui giornalisti: gli archivi del nostro settimanale documentano che non ha chiesto di pubblicare articoli a favore di Uber.
MATTEO SUPPORTER, PISAPIA NO
Già nel 2014 un dossier aziendale segnala che, quando l'allora ministro dei Trasporti, Maurizio Lupi, ha definito «illegale» l'ingresso della multinazionale in Italia, «il premier Renzi, 24 ore dopo, ha dichiarato che Uber è un grande servizio da lui usato a New York». A quel punto, evidenziano i lobbisti, «il ministro ha fatto retromarcia» dicendo che «Uber è una piattaforma e non si può considerarla illegale».
L'allora sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, è invece «un grosso problema» per Uber, che aveva lanciato la sua piattaforma nel 2013 proprio nella sua metropoli, come sempre senza chiedere permessi e licenze. Quindi l'amministrazione comunale l'ha vietata, facendo fioccare le multe. I lobbisti cercano di avvicinare assessori e consiglieri, con scarsi risultati, e chiedono udienza al sindaco. Pisapia è «gentile», ma conferma che aggirare le regole sui taxi è «illegale». E gela i manager avvertendoli, da avvocato, che il loro modello aziendale rischia di esporli ad accuse di «sfruttamento dei lavoratori».
A Roma invece l'«Operation Renzi» prosegue per tutto il 2015 con incontri riservati, telefonate, messaggi e contatti con parlamentari renziani del Pd, ministri, consulenti e capi di gabinetto. Il periodo cruciale si apre nel gennaio 2016: i manager americani si sentono sicuri che «il team di Renzi» inserirà nella legge sulla concorrenza «la norma che ci serve», ma sanno che altri partiti difendono i taxi e lo stesso Pd è diviso. Proprio allora un gruppo di tassisti pubblica su Internet due foto dei big di Uber in missione politica a Roma: MacGann, Tursi e David Plouffe. La seconda immagine immortala Tursi mentre entra nella sede del Pd. I commenti dei tassisti sono indignati: «Legge concorrenza, Uber dal presidente del consiglio: lobbyyyng!».
«I tre Re Magi con oro... In sede Pd!». Non si sa chi abbia scattato le foto né quando, fatto sta che i manager se le scambiano via mail, il 17 e 18 gennaio, scherzandoci sopra. «Sembri proprio un boss». «Io un agente dei servizi». MacGann scrive ai colleghi una beffarda protesta e la intesta al premier: «Caro Matteo Renzi, i tuoi paparazzi mi fanno sembrare ancora più grasso di quello che sono».
Due mesi dopo, la festa è finita. I manager si dicono che «Renzi ha ceduto alle proteste dei taxi» e «fottuto Uber». A metà marzo MacGann detta la linea ai dirigenti: «Mettete questo direttamente sulle spalle di Renzi: "Primo ministro, ti eri impegnato personalmente a riformare le regole dei trasporti in Italia: perché adesso ti pieghi alle minacce?"». Intanto il numero uno Travis Kalanick spara l'annuncio bomba: Uber potrebbe lasciare l'Italia.
Per riarruolare Renzi, torna in campo De Benedetti. Il 17 marzo Tursi manda ai capi di Uber un nuovo rapporto: «Parlato con De Benedetti alle 7.30. È molto deluso, ma non del tutto sorpreso. Raccomanda di non perdere la fiducia. Dice: "Questo è ancora il miglior primo ministro con cui Uber possa parlare, è pro-americano". Raccomanda di non minacciarlo. Ha in programma una colazione di lavoro con Renzi e si è offerto di parlargli di Uber. Dice: “So esattamente come farlo, quali leve tirare"».
Nei mesi successivi la legge sulla concorrenza si arena. In dicembre Renzi subisce la fatale sconfitta al referendum costituzionale. E i manager di Uber lo scaricano, raccontandosi il velenoso epitaffio di De Benedetti: «Renzi è solo un gradasso».
Il leader di Italia Viva ha mandato a L'Espresso una lunga risposta scritta, che pubblicheremo integralmente sul nostro sito (come tutte le altre che abbiamo ricevuto), nella quale smentisce le affermazioni dei lobbisti di Uber. «Il governo Renzi si impegnò in Parlamento, anche mettendo la fiducia, su molti altri argomenti, ma il dossier taxi fu sempre seguito a livello ministeriale, non dal primo ministro». «Renzi non ha fatto norme a favore di Uber» e «non ha avuto incontri coi suoi dirigenti», tantomeno nella sede del Pd.
L'ex premier non smentisce una donazione di mille euro, di cui parlava nel 2014 una manager di Uber invitata a una cena di finanziamento, ma sottolinea che «partecipavano centinaia di esponenti della comunità imprenditoriale, i nomi sono pubblici». Renzi inoltre conferma che un famoso lobbista, Jim Messina, «ha collaborato alla campagna per il referendum», ma «non crede di aver mai parlato con lui di Uber».
Caduto Renzi, la legge sulla concorrenza è stata approvata sotto il governo Gentiloni, ma senza la norma su misura di Uber. Che però rispunta nell'articolo 10, comma b, della riforma varata dal governo Draghi, ora all'esame finale del Parlamento tra proteste e scioperi dei tassisti. Tre ministeri vengono autorizzati a emanare un regolamento con questo obiettivo: «Adeguamento dell’offerta di servizi alle forme di mobilità che si svolgono mediante l’uso di applicazioni web che utilizzano piattaforme tecnologiche per l’interconnessione dei passeggeri e dei conducenti». Manca solo la parola Uber.
I documenti diffusi da MacGann si fermano al 2017: l'attività di lobby successiva resta segreta. Gli Uber Files offrono però forti indizi sugli ispiratori passati della norma pro Uber ora rilanciata. In primo piano c’è l'Istituto Bruno Leoni, il celebre centro di studi economici di scuola neo-liberista. Nelle carte di Uber è considerato un'agenzia di lobby esterna, che «fin dall'inizio ci ha fortemente aiutato» e «dato più voce». I suoi economisti, tra cui il presidente, che è fratello di Carlo De Benedetti, hanno partecipato a svariati convegni con i manager di Uber, organizzati dall'azienda o dall'istituto, con inviti reciproci.
L'Espresso ha chiesto se il centro studi abbia mai ricevuto soldi da Uber, tra il 2013 e il 2017, e se i rapporti con un'azienda privata non rischino di minarne l'indipendenza. In una lunga risposta, il portavoce conferma che «Uber ha sostenuto l’Istituto attraverso due contributi da 10.000 euro ciascuno, nel 2014 e nel 2015, e un terzo da 12.500 euro nel 2017». E «anche grazie a questo supporto l’Istituto ha potuto dedicare risorse specifiche al tema del trasporto».
L'Istituto sottolinea che «le donazioni di Uber corrispondono solo all'1 per cento circa delle donazioni annuali». E che gli studi favorevoli a Uber sono «in piena e assoluta coerenza» con la linea statutaria di sostegno del «libero mercato».
Gli Uber Files documentano anche incontri e legami dell'istituto con burocrati e consulenti dei ministeri da cui dipende la legge sulla concorrenza.
SILVIO E LA TRATTATIVA
Nel marzo 2015 i vertici di Uber vengono informati che sono in corso «trattative riservate» per far entrare nell'azionariato due grandi gruppi italiani. Un dossier riassume le due «discussioni attive». «Agnelli/Exor: ci siamo sentiti al telefono la settimana scorsa, entro la fine di questa ci diranno se e come procederanno». «Berlusconi: rimangono molto interessati, ma dalla nostra parte c'è la sensazione che il rischio possa essere troppo alto». Exor non compare nei successivi dossier, per cui sembra aver rinunciato. Il possibile «investimento di Berlusconi» resta invece al centro del dibattito ai vertici di Uber.
Il manager Fraser Robinson, il 9 marzo 2015, comunica che la trattativa riguarda la holding H14, che appartiene ai tre figli di Berlusconi e Veronica Lario e che controlla il 21 per cento della Fininvest. Il dirigente di Uber scrive di aver avuto «un buon meeting, venerdì a Milano, con il team investimenti di H14». Precisa che all'incontro, durato due ore, «era presente un politico, Valentino Valentini, molto vicino a Berlusconi».
E riferisce che «loro hanno suggerito una strategia su due livelli per avere successo in Italia. Primo: lanciare Uber in una città con pochissimi taxi, con l'obiettivo di guadagnare in fretta un supporto locale. Secondo: H14 nello stesso tempo ci procurerebbe in via riservata una base di appoggio politico. Questo supporto però dovrà essere molto tranquillo, altrimenti danneggerebbe Uber. Valentino ha sottolineato che oggi in Italia questo vale non solo per Berlusconi, ma per qualsiasi appoggio politico. Uber ha bisogno di apparire scollegata dai partiti».
L'avvocato del Cavaliere, Niccolò Ghedini, ha risposto a tutte le nostre domande chiarendo che «il dottor Silvio Berlusconi non ha mai avuto alcuna partecipazione azionaria o altro interesse economico in Uber», così come «nessuno dei suoi familiari». «Nel 2014 la società H14 ha sviluppato svariati investimenti nel settore digitale e ha valutato anche una potenziale acquisizione di quote, richiesta da Uber», ma poi «nessun investimento è mai stato effettuato». Mentre Valentini «non è mai intervenuto negli affari della famiglia Berlusconi»: ha partecipato solo a quell'incontro «a titolo di mera cortesia, per la sua perfetta conoscenza della lingua e perché Luigi Berlusconi in quel momento aveva problemi di salute».
Gli Uber Files ora rivelano i retroscena di quell’affare mancato. Robinson era per il via libera: «Loro sembrano decisi e capaci di assicurarci l'influenza politica che stiamo cercando. Berlusconi è ancora molto potente». Benedetta Arese Lucini è contraria: «Oggi Berlusconi e il suo partito hanno pochissima influenza sull'opinione pubblica e sul panorama politico. E in 20 anni il suo governo è sempre stato dalla parte dei taxi». Due manager americani sono possibilisti: «L'investimento non verrebbe reso pubblico: non facciamo troppo i puri». A bloccare tutto è l'allora grande capo MacGann: «Odio rifiutare i soldi, ma sono contrarissimo a far entrare chiunque del giro di Berlusconi: è un uomo di ieri, le persone di cui si circonda non sono sempre le più raffinate e rispettate, e se il suo aiuto venisse scoperto, per noi sarebbe tossico. E comunque non ci serve: siamo già strapieni di finanziatori».
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