L’«Operation Renzi» in Italia. I favori di Macron in Francia. Il contratto per l’ex commissaria europea Kroes. Gli incontri con Biden e Netanyahu. Oltre 124 mila documenti svelano i segreti della multinazionale. La nuova inchiesta de L’Espresso con il consorzio Icij. E domenica prossima in edicola tutti i particolari sulle operazioni italiane

Lavoratori sfruttati, sottopagati, spiati, licenziati senza preavviso né giustificazione. Programmi segreti per bloccare i computer aziendali durante le perquisizioni di polizia. Soldi spostati nei paradisi fiscali per non pagare le tasse, mentre nei bilanci ufficiali vengono esposte perdite miliardarie. Accordi da centinaia di milioni con gli oligarchi e i banchieri russi più vicini a Putin. E una massiccia attività di lobby per reclutare politici, comprare consensi, condizionare e orientare leggi e regolamenti in tutto il mondo.

 

Sono i segreti di Uber, la multinazionale che ha rivoluzionato il sistema dei trasporti privati con le nuove tecnologie di Internet. E che in Italia proprio in questi giorni è al centro delle proteste e degli scioperi dei sindacati dei taxi, che accusano il governo Draghi di aver varato una riforma su misura, ora all’esame finale del Parlamento, per favorire il colosso californiano.

 

Una manifestazione dei tassisti italiani contro Uber

Uber Files è il nome di questa inchiesta giornalistica che ha unito più di 180 cronisti di 44 testate internazionali, tra cui L'Espresso in esclusiva per l'Italia. I reporter di 29 nazioni hanno analizzato per più di sei mesi, insieme, oltre 124 mila documenti interni della multinazionale, ottenuti dal quotidiano inglese The Guardian e condivisi con l'International Consortium of Investigative Journalists (Icij). Le notizie scoperte grazie a questo lavoro collettivo vengono pubblicate in simultanea, a partire dalle 18 di oggi domenica 10 luglio, da Le Monde, Bbc, Washington Post, El Pais, Sueddeutsche Zeitung e altri mezzi d'informazione dall'India all'Argentina, dalla Finlandia al Sudafrica.

 

Il materiale al centro della fuga di notizie va dal 2013 al 2017 e comprende circa 83 mila email dei manager di Uber: quattro anni di messaggi e comunicazioni riservate che rivelano, in particolare, le pressioni su politici e amministratori pubblici di decine di nazioni, per evitare procedimenti giudiziari e piegare le norme statali agli interessi della multinazionale. Casi mai emersi prima, che chiamano in causa personalità di altissimo livello come l'attuale presidente francese Emmanuel Macron e l'ex vicepresidente della Commissione europea Neelie Kroos.

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«Italy - Operation Renzi» è il nome in codice di una campagna di pressione organizzata dalla multinazionale, dal 2014 e il 2016, con l'obiettivo di agganciare e condizionare l'allora presidente del consiglio e alcuni ministri e parlamentari del Pd. Nelle mail dei manager americani, Matteo Renzi viene definito «un entusiastico sostenitore di Uber». Per avvicinare l'allora capo del governo italiano la multinazionale ha utilizzato, oltre ai propri lobbisti, personalità istituzionali come John Phillips, in quegli anni ambasciatore degli Stati Uniti a Roma. Il leader di Italia Viva ha risposto alle domande de L'Espresso spiegando di non aver «mai seguito personalmente» le questioni dei taxi e dei trasporti, che venivano gestite «a livello ministeriale, non dal primo ministro». Renzi conferma di aver incontrato più volte l'ambasciatore Phillips, ma non ricorda di aver mai parlato di Uber con lui o con altri lobbisti americani. E comunque il governo Renzi non ha approvato alcun provvedimento a favore del colosso californiano.

 

Tutti i particolari sulla «Operation Renzi» e sulle altre manovre di Uber per condizionare la politica italiana, cambiare le leggi e sfuggire ai processi verranno pubblicati sul prossimo numero de L'Espresso, in edicola da domenica 17 luglio con numerosi articoli accessibili da venerdì 15 per gli abbonati all'edizione digitale.

 

Un autorevole intervento politico a favore di Uber risulta documentato in Francia, che nel 2015 era attraversata da un'ondata di proteste dei taxi contro la multinazionale americana, con motivazioni molto simili alle agitazioni di oggi in Italia. Dopo giorni di scontri in diverse città, il 20 ottobre le autorità di Marsiglia decisero di sospendere Uber, dichiarando illegale la sua attività per mancanza delle licenze pubbliche richieste dalla legge francese (come da quella italiana, in attesa della prevista riforma) per tutti i tassisti e autisti privati. Il giorno dopo, il manager Mark MacGann, responsabile delle politiche aziendali di Uber in Europa, ha mandato una mail a Macron, allora ministro dell'Economia, chiedendogli apertamente di intervenire sulla prefettura.

 

Macron gli ha risposto alle 6.54 del mattino del 22 ottobre 2015, con questo messaggio: «Me ne occuperò personalmente. Restiamo calmi in questo momento». La sera stessa, le autorità di Marsiglia hanno modificato il provvedimento in un modo che i manager di Uber hanno festeggiato come una vittoria. A quel punto MacGann ha ringraziato personalmente Macron per la «buona cooperazione del suo ufficio»: «Grazie per il vostro supporto».

 

Gli Uber Files documentano altri messaggi privati e almeno quattro incontri, finora rimasti segreti, tra l'allora ministro Macron e i rappresentanti della multinazionale. Negli stessi mesi la società americana stava fronteggiando pesanti indagini giudiziarie in Francia, con accuse di sfruttamento economico degli autisti e violazione delle leggi di tutela dei lavoratori dipendenti.

 

Il presidente francese, contattato dal consorzio attraverso il suo staff, ha difeso le scelte del governo di Parigi nei mesi della rivolta dei taxi, ma non ha risposto alle domande sui rapporti personali con Uber. La multinazionale ha dichiarato di non aver mai beneficiato di trattamenti di favore in Francia. E le autorità di Marsiglia, attraverso un portavoce, hanno smentito di aver subito pressioni da Macron.

 

Il caso francese non è isolato: è la prassi di questa multinazionale. Negli Uber Files si legge che tra il 2014 e il 2016 i manager e i lobbisti di Uber hanno avuto più di 100 incontri riservati con leader politici ed esponenti delle istituzioni di decine di nazioni, tra cui almeno 12 rappresentanti della Commissione europea. Questi «meeting» non erano mai stati rivelati prima d'ora.

 

Dalle carte aziendali emerge una schedatura di oltre 1.800 esponenti della politica e delle istituzioni di mezzo mondo che vengono indicati come obiettivi delle attività di lobby della multinazionale. I documenti mostrano che in quegli anni i massimi dirigenti della società hanno incontrato, tra gli altri, l'allora vicepresidente americano Joe Biden, il capo del governo israeliano Benjamin Netanyahu, il primo ministro irlandese Enda Kenny, il presidente dell'Estonia Toomas Hendrik e molti altri leader allora in carica, chiedendo a tutti di cambiare leggi o pronunciarsi a favore della multinazionale. Biden lo ha fatto pubblicamente in un discorso al vertice di Davos. La multinazionale lo aveva avvicinato attraverso David Plouffe, già organizzatore della campagna elettorale che nel 2008 portò Obama alla presidenza, poi assunto da Uber.

 

Il colosso americano del noleggio di autisti ha assunto decine di ex politici e funzionari pubblici, trasformandoli in propri manager e lobbisti. Un caso esemplare riguarda Neelie Kroes, che è stata ministro dei trasporti nel governo olandese e vicepresidente della Commissione europea con delega alla concorrenza fino all'ottobre 2014, con competenze strategiche per Uber. Cessata la carica pubblica, le regole della Ue vietano di farsi assumere da aziende private per almeno 18 mesi, per evitare conflitti d'interesse.

 

Un anno dopo aver lasciato la Commissione, Kroes ha chiesto di essere autorizzata a ottenere entrare nel comitato dei consulenti di Uber con un contratto retribuito. La Commissione ha respinto la sua richiesta. Gli Uber Files ora rivelano che in quel periodo, nonostante il divieto, Neelie Kroes ha fatto pressioni su un ministro e altri esponenti del governo olandese «per obbligare le autorità di controllo e la polizia a lasciar cadere» un'indagine sulla sede europea di Uber ad Amsterdam, come si legge nelle carte. Tra aprile e maggio del 2016, appena è scaduto il termine di 18 mesi, l'ex commissaria europea si è fatta assumere nel comitato di Uber accettando, come scrive lei stessa in una mail, uno stipendio di 200 mila dollari. E a fine mese era già al lavoro per organizzare un incontro tra i vertici di Uber e un commissario europeo in carica.

 

La signora Kroes ha risposto alle domande dei giornalisti di Icij con una nota scritta: «Rispettando i mie doveri etici di ex commissario europeo, non ho accettato nessun incarico formale o informale da Uber» prima della fine del periodo di divieto. In quei 18 mesi, ha precisato di aver svolto solo «un’attività non pagata per un'organizzazione olandese di supporto delle start-up», carica che richiedeva di «interagire con una vasta gamma di aziende private e strutture governative», tra cui evidentemente la centrale olandese di Uber. Kroes sostiene di aver svolto questo ruolo su richiesta del governo olandese e con l'approvazione della Commissione europea.

 

Tra il 2013 e il 2017, nei quattro anni coperti dagli Uber Files, la multinazionale americana ha lanciato un'aggressiva strategia di conquista di nuovi mercati, scontrandosi con le leggi e le autorità di controllo in diversi paesi, dall'Europa all'India, dalla Thailandia agli stessi Stati Uniti. Per affermarsi e sconfiggere la concorrenza dei taxi, ha adottato una filosofia aziendale del fatto compiuto, che viene riassunta dagli stessi top manager di Uber con frasi sconcertanti. «Siamo fottutamente illegali». «Meglio chiedere il perdono che il permesso». «Prima partiamo con l'attività, poi arriva la tempesta di m..rda delle regole e controlli».

 

Le carte interne della multinazionale descrivono anche un programma informatico segreto, chiamato in gergo «Kill switch», che interrompe i collegamenti con la rete dei computer aziendali e impedisce alle forze di polizia di acquisire i dati in caso di perquisizioni o controlli. Gli Uber Files mostrano che il sistema è stato utilizzato per eludere le indagini in almeno sei nazioni, tra cui Francia, India e Canada. Travis Kalanick, uno dei due fondatori di Uber, risulta aver ordinato personalmente di usare il programma ammazza-computer proprio mentre la polizia olandese stava perquisendo il quartier generale della multinazionale ad Amsterdam. «Schiacciate il kill switch al più presto possibile, l'accesso ad Amtserdam dev'essere chiuso», si legge nel documento intestato al super manager.

 

Gli avvocati di Kalanick hanno replicato a queste rivelazioni dichiarando che lui non ha mai dato nessun ordine del genere, né di eludere altre indagini o controlli in nessuna nazione, e hanno aggiunto che quel documento potrebbe non essere autentico, ma fabbricato da altri manager per screditarlo.

 

Kalanick, che aveva creato Uber nel 2009 a San Francisco insieme all'amico e socio Garrett Camp, ne è stato il capo indiscusso fino al 2017, quando è stato rimpiazzato da un nuovo amministratore delegato, Dara Khosrowshahi. Un cambio della guardia provocato da una vasta serie di indagini, cause civili e procedimenti amministrativi avviati negli Stati Uniti, con accuse di violazioni sistematiche delle leggi sul lavoro e sfruttamento degli autisti, fino a casi di molestie sessuali e discriminazioni razziali. I nuovi vertici di Uber, attraverso un portavoce, oggi confermano che in quegli anni sono stati commessi «errori» e «passi falsi» che hanno portato a quella «clamorosa resa dei conti con le autorità americane». «Oggi Uber è una società completamente diversa», assicura il portavoce in una nota scritta: «il 90 per cento degli attuali dipendenti è stato assunto dopo l'arrivo di Dara nel 2017». Kalanick è rimasto dirigente della multinazionale fino al 2019.

 

Dall'Europa all'Asia, dall'Africa al Sudamerica, l'arrivo di Uber, che ha potuto approfittare della mancanza di regole e controlli degli Stati nazionali sulle piattaforme di Internet, ha scatenato ondate di proteste delle organizzazioni dei taxi e degli autisti privati, che per lavorare hanno invece bisogno di ottenere costose e contingentate licenze pubbliche. In Francia, India e altri Paesi le rivolte dei tassisti sono degenerate, in alcune città, in violenze e aggressioni contro i poveri autisti precari di Uber. Le email più allucinanti mostrano che i top manager della multinazionale erano contenti di quei raid: «La violenza ci garantisce il successo», si legge in un messaggio firmato da Kalanick. Mentre un suo manager, riferendo la notizia di pestaggio, conclude: «Bella storia!». La multinazionale inoltre insufflava le notizie delle violenze a giornalisti amici per scatenare campagne mediatiche contro i tassisti.

 

Un portavoce di Kalanick, in una nota scritta, smentisce che anche quella mail di elogio delle aggressioni possa essere attribuita a lui. E afferma invece che «il signor Kalanick non ha mai suggerito che Uber potesse ricavare vantaggi dalle violenze commesse a danno della sicurezza degli autisti». Mentre l'attuale vertice della società dichiara che la politica di Uber è cambiata anche rispetto alle organizzazioni dei taxi, passando «dal confronto alla collaborazione».

 

A rovinare la festa della legalità ritrovata è però un'indagine penale della Guardia di Finanza e della Procura di Milano, con il pm Paolo Storari, che ha portato al commissariamento, dall'aprile 2020 al marzo 2021, di Uber Italy. La filiale italiana della multinazionale è stata sottoposta ad amministrazione giudiziaria con l’accusa-shock di caporalato, cioè di sfruttamento criminale della manodopera attraverso un giro di intermediari. Le vittime sono decine di immigrati molto poveri, africani e asiatici, che dal 2018 al 2020 consegnavano cibo in bicicletta, a Milano, Torino, Roma e altre città, per salari bassissimi (3 euro a consegna, per qualsiasi distanza, per un totale di 300-400 euro al mese al massimo) senza ottenere contratti, assicurazioni, misure di sicurezza e contributi sanitari e pensionistici.

 

Gli intermediari sono già stati condannati in tribunale, mentre una dirigente di Uber è in attesa del processo di primo grado e si proclama innocente. La multinazionale ha comunque risarcito circa cinquemila euro per ogni «rider» sfruttato e ne ha versati altri centomila alla Cgil, che userà la somma per la tutela e l'assistenza legale di tutti i dipendenti precari delle società di trasporti e consegne della cosiddetta «new economy».

 

Sul piano economico, a livello globale, Uber rimane un vero miracolo di Internet: i bilanci mostrano che la multinazionale ha continuato ad accumulare perdite fin dalla sua fondazione per più di dieci anni, per un passivo totale di oltre 20 miliardi di dollari, fino al pareggio raggiunto solo tra il 2021 e il 2022. E intanto ha continuato a distribuire compensi multimilionari ai propri manager e a schiere di lobbisti e consulenti. Le carte mostrano che nel 2016 Uber programmava di spendere oltre 60 milioni di dollari solo in attività di lobby. In tutti questi anni, nonostante i conti negativi, la multinazionale ha saputo attrarre molti nuovi investitori, anche in Italia, e far aumentare il valore delle sue azioni, per l'aspettativa di profitti futuri. Nel maggio scorso gli azionisti di Uber hanno votato contro una proposta di rendere pubbliche le spese per le attività di lobby e consulenze politiche. E ora il nuovo vertice ha respinto le richieste dei giornalisti del consorzio di conoscere le cifre, almeno per il 2021, e i nomi dei beneficiari.

 

Questa inchiesta è il frutto del lavoro collettivo dei giornalisti dell'Espresso e delle altre testate che fanno parte del consorzio Icij, in particolare Sydney Freedberg, Nicole Sadek, Brenda Medina, Agustin Armendariz, Karrie Kehoe, Scilla Alecci, Dean Starkman, Delphine Reuter, Ben Hallman, Jelena Cosic, Fergus Shiel, Mike Hudson, Emilia Diaz-Struck, Miguel Fiandor, Richard H.P. Sia, Hamish Boland-Rudder, Asraa Mustufa, Pierre Romera, Gerard Ryle, Antonio Cucho Gamboa, Joe Hillhouse, Tom Stites, Whitney Awanayah, Margot Williams, Soline Ledésert, Bruno Thomas, Caroline Desprat, Maxime Vanza Lutaonda, Damien Leloup, Adrien Senecat, Elodie Gueguen, Felicity Lawrence, Rob Davies, Jennifer Rankin, Aaron Davis, Robin Amer, Joseph Menn, Douglas MacMillan, Rick Noack, Linda van der Pol, Uri Blau, Dirk Waterval, Karlijn Kuijpers.