Balcani
In volo dallo Stari Most: la sfida dei tuffatori bosniaci del ponte simbolo
Rinnovano la tradizione medievale che neppure la guerra ha interrotto. A trent’anni dalla nascita della Bosnia indipendente e dall’inizio dell’assedio di Sarajevo, vivono di offerte e gadget e preservano la memoria del gioiello risanato
In equilibrio tra la pietra scivolosa e luccicante del ponte medievale più bello di tutta la Bosnia e le acque gelide del fiume Neretva, così brillante con i suoi verdi e blu intensi delle correnti, Amir tira su col naso e fa l’ultimo respiro. Senza guardare né in alto né in basso, ma solo dritto davanti a sé, si lancia, le mani e i piedi rigidi come le ali tese di un uccello in volo, in picchiata. Sono solo pochi secondi ma il pubblico a fianco a lui sul ponte, al momento del tuffo, ha già esclamato in coro diversi «Oooh!», in segno di ammirazione e spavento al contempo. Amir riappare altrettanto velocemente dall’acqua e nuota verso la riva, come se nulla fosse successo. È già pronto a risalire.
Col suo tuffo sul ponte della città di Mostar, nella Bosnia meridionale, Amir e i suoi amici del Club dei tuffatori, onorano una tradizione lunga oltre 500 anni. «Non stiamo solo seguendo una tradizione storica, risalente al Medioevo, durante l’epoca ottomana», dice Amir, 24 anni, con una tovaglietta in mano per asciugarsi appena il volto: «Lo facciamo anche per proteggere il nostro patrimonio culturale e mantenere pulito il luogo, il passaggio sul ponte. Siamo i guardiani del Ponte di Mostar, lo Stari Most, ovvero il Vecchio Ponte».
Il primo tuffo dal Ponte di Mostar di cui si abbia testimonianza è avvenuto nel diciassettesimo secolo, precisamente nel 1664, pochi decenni dopo la sua costruzione. La città tiene dal 1968 una competizione annuale di tuffi e i suoi partecipanti accorrono da tutto il mondo ogni estate per sfidare i 20-27 metri di altezza, secondo la piena del fiume. Uno sport estremo che richiede coraggio adrenalinico. Ma quando Amir risale dal fiume verso il ponte, percorrendo scale in pietra antica, vie pittoresche, nel bazar della Mostar medievale, ha un altro compito, lo stesso per cui forse questi tuffi sono cominciati secoli fa. Con un cappello in mano, cammina tra i turisti di diverse nazionalità, di nuovo in fila per guardare il prossimo dei tuffatori lanciarsi. «Io ho finito con i tuffi oggi», esclama, sempre in equilibrio sul ciglio del ponte, ma questa volta tendendo la mano verso i passanti e non il suo corpo verso il fiume. «Adesso devo raccogliere un po’ di soldi per il nostro Club». Per Amir, il tuffo è l’unica fonte di reddito. Da piccolo è stato adottato per alcuni mesi all’anno da una famiglia siciliana a cui è rimasto legatissimo, come molti dei suoi coetanei bosniaci nati durante e dopo il conflitto che hanno vissuto parti della loro vita in famiglie italiane, dal nord al sud. Adesso quasi quasi, tra un tuffo e un altro, Amir pensa di tornarci in Italia.
A trent’anni dalla nascita della Bosnia indipendente e dall’inizio dell’assedio di Sarajevo, durante il conflitto nella penisola balcanica, il Paese e i suoi cittadini si confrontano con una crisi importante, in vista anche delle prossime elezioni di ottobre. Al cuore di questa crisi soprattutto politica, la minaccia, lo scorso autunno, da parte della regione autonoma della Repubblica Serba (Republika Srpska), a maggioranza serba, di una forma di secessione dalla Bosnia-Erzegovina, con il distacco da istituzioni chiave come l’esercito. Definita la città ponte proprio per la presenza della Neretva, anche Mostar, nell’altra regione autonoma del Paese, (Federacija Bosne i Hercegovine), rimane ancora una città divisa: da un lato i bosgnacchi, i bosniaci musulmani, e dall’altra i croati, due diverse comunità separate da un fiume. La vera linea rossa del conflitto però si trovava poco oltre lo Stari Most e tuttora taglia in due la città: è il Bulevar, il lungo viale parallelo al fiume, che segna anche la divisione tra le istituzioni locali. Il sistema scolastico, universitario, le strutture sanitarie e aziende per la gestione idro-energetica seguono indirizzi diversi. Il ponte insomma non sembra asservire alla sua funzione di unire le due sponde.
Quando nel 1993 è stato distrutto dalle granate sparate dagli artiglieri croato-bosniaci nel corso di feroci combattimenti con i musulmani bosniaci, il ponte non era solo utile a fini militari: l’obiettivo era proprio colpire il cuore della città, la sua storia anche musulmana. Quasi subito i suoi abitanti, nonostante la battaglia in corso, costruirono una passerella per continuare a tuffarsi.
Amir allora non era neanche nato. Il suo compagno del Club dei tuffatori invece, Admir Delic, aveva appena diciotto anni. Due anni dopo, nel 1995, avrebbe cominciato a tuffarsi e da allora non ha più smesso. «Ci sono delle giornate che mi tuffo anche dieci o dodici volte, nella stagione turistica alta, tra luglio e agosto», racconta durante la sua pausa, seduto a bere un caffè nella sala del Club. Dietro di lui, dipinti e immagini del ponte in diverse epoche storiche e dei tuffatori durante le loro imprese meravigliose. Ma anche certificati di premi e di partecipazioni a gare di tuffi a livello internazionale. Se non al Club circondato dai trofei, le sue altre pause sono nel bar accanto al ponte, in mezzo a turisti, dove fumare una sigaretta guardando al fiume. E ricordare il passato. «Neanche la guerra e la distruzione del ponte hanno interrotto la tradizione. Questo mi ha affascinato e come giovane di Mostar mi sentivo quasi in dovere di provare. Prima o poi tutti noi maschi lo dovevamo fare, come un rito di passaggio. Solo che io sono tra quelli che ha continuato fino ad adesso. È il mio lavoro». Durante la guerra, sfidando cecchini, bombe, spari, Admir vedeva suoi coetanei tuffarsi dalla piattaforma e ha cominciato anche lui. «Era molto più difficile e pericoloso tuffarsi dalla passerella: bisognava fare la rincorsa, con il rischio di farsi male. Ma anche oggi, ogni singolo tuffo resta una sfida, necessita il massimo della concentrazione».
Il ricavato dei tuffi sulla Neretva non serve però solo al loro sostentamento. «Con le offerte dei turisti dobbiamo intanto coprire l’affitto della torre ovest del ponte, ovvero l’appartamento e sede del Club dei tuffatori, dove ci riposiamo, prepariamo, riuniamo e organizziamo per la divisione dei turni. Meno di tre al giorno non li fa nessuno», afferma Igor Kazic, un altro dei tuffatori del Club. Poco fuori la porta della sede, calamite da frigorifero con la foto dello Stari Most, cartoline in bianco nero o a colori, insieme ad altri tipi di souvenir, contribuiscono alle spese. Il ponte vittima della guerra è stato ricostruito e completato nel 2004 sotto l’egida dell’Unesco che lo ha dichiarato patrimonio mondiale dell’umanità e da allora il flusso dei turisti è stato costante, interrotto bruscamente solo dalla pandemia da Covid-19. In quel periodo, Amir, Admir e Igor si sono lanciati per qualche tuffo, giusto per tenersi in allenamento, ma nessun aiuto è arrivato da parte della città per portare avanti la baracca.
Sulle rive del fiume sotto il ponte, Silva seduta su una sedia facilmente trasportabile, vende pure lei cartoline. Osserva i pochi turisti che osano bagnarsi sul fiume gelido, almeno le gambe. Silva è stata una delle poche soldate durante i combattimenti di Mostar e ha visto con i suoi occhi morire tanti compagni ma anche giornalisti, come Marco Luchetta, nel gennaio 1994. Dopo la fine del conflitto, Silva non ha trovato più lavoro. «Ho venduto tutto per aiutare tante persone bisognose dopo la guerra, non mi è rimasto niente. Mi arrangio con le cartoline, le persone attorno a me sanno sempre essere generose, me la cavo». Silva non ha più l’età per considerare di lasciare il paese come molti giovani in cerca di migliore opportunità fanno. La maggiore critica di Silva e dei tanti che vorrebbero lasciare Mostar va alla corruzione in diversi apparati del potere che non permette ai cittadini di trovare un lavoro dignitosamente.
Tra un nuovo business e una mazzetta, se la vita dei tuffatori e dei cittadini di Mostar è precaria, potrebbe esserlo anche quella del fiume Neretva. Il suo corso è interrotto da dighe ed è luogo di costruzione di nuove, future centrali idroelettriche, come riportato in un reportage lungo il fiume Neretva dell’Osservatorio Balcani e Caucaso. Oltre al rischio per la flora e la fauna, anche il volume dell’acqua è minore che in passato. L’elettricità prodotta dall’idroelettrico corrisponde al 38 per cento, riporta l’Osservatorio, e proviene soprattutto dalle centrali sulla Neretva e sulla Drina, il fiume che invece segna il confine con la Serbia.
La mancata programmazione per sostituirne la produzione con impianti solari e eolici, unita al rischio siccità per le minori precipitazioni, mettono in pericolo anche il fiume Neretva che andrebbe protetto come patrimonio dell’umanità. Il tramonto si avvicina, l’ultimo tuffo di Admir e Igor, prima di tornare a casa dalle famiglie e dai figli, come alla fine di una qualsiasi giornata lavorativa. Amir invece si va a sedere in un bar con un po’ di musica, nella movida di turisti tra le pietre medievali. Tutto sembra luminoso per chi visita un giorno o due la città di Mostar. Per i tuffatori è più dura essere i custodi di un tale patrimonio, di un’ardua impresa. Non basta il coraggio di tuffarsi, ci vuole anche quello di restare.