Lavoratori sottopagati e senza contratto: parlano le vittime della multinazionale. Tutti i verbali e una video-intervista ai ciclisti africani e asiatici che hanno testimoniato nel processo alla filiale italiana del colosso Usa. «Ci pagavano 3 euro»

«Abbiamo creato un sistema per disperati». È la confessione di una manager italiana di Uber Italy (che controllava anche la app Uber Eats ndr), intercettata dalla Guardia di Finanza ed evidenziata dal tribunale di Milano nel decreto che ha commissariato la filiale italiana della multinazionale, dall'aprile 2020 al marzo 2021, con l'accusa-shock di caporalato, cioè di sfruttamento criminale dei lavoratori attraverso un giro di intermediari. Le vittime sono centinaia di fattorini molto poveri, quasi tutti immigrati africani o asiatici, che consegnavano pasti a domicilio in bicicletta a Milano, ma anche a Torino, Roma, Rimini e altre città.

 

Lavoratori sfruttati. Sottopagati. E denigrati con insulti razzisti: «Schifosi», «Puzzano troppo, sono neri e hanno odori diversi dai nostri», si legge nelle chat aziendali. Però erano considerati «la gallina dalle uova d'oro». Perché lavoravano tutti i giorni fino a dodici ore per salari bassissimi, 3 euro a consegna per qualsiasi distanza, per un totale di 400-500 euro al mese al massimo, senza contratto e senza diritti, misure di sicurezza, assicurazioni, assistenza sanitaria e contributi.

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L'Espresso ha raccolto tutte le deposizioni delle vittime conosciute, quelle che Uber, dopo essere finita per un anno in amministrazione giudiziaria, ha accettato di risarcire. Sono persone fragili, emarginate, per lo più rifugiati stranieri, richiedenti asilo politico, che vivono in centri di accoglienza. Molti si vergognano di raccontare la loro storia di miseria e sfruttamento. Uno di loro, Osaradion Uwnmahongie, nato in Nigeria il 14 giugno 1995, ha accettato di farsi intervistare e filmare da L'Espresso. «Sono partito dalla Nigeria, dalla mia città, nel 2016. Sono andato prima ad Abuja, la capitale, poi a Kanu e di qui a Katsina, vicino al confine con il Niger. Non avevamo passaporti, quindi abbiamo dovuto fare un lungo viaggio per evitare i controlli della polizia nel Niger. Nel deserto, siamo rimasti fino a cinque giorni senza cibo e acqua».

 

«Dopo un mese, siamo arrivati in Libia. Abbiamo dovuto restare lì per altri 8-9 mesi. Poi siamo stati rapiti dalle gang. Non ti considerano un essere umano, ti vedono solo come un'opportunità di fare soldi. Ti sequestrano, è il cosiddetto kalabush. Ho chiamato mia mamma che mi ha mandato il denaro per il riscatto, tremila dinari, cioè 500 euro, tutto quello che aveva. Poi ho lavorato per un'azienda agricola nei campi di angurie, senza paga. Sono stato rapito di nuovo e portato a Sabratha, in una prigione gestita dalla mafia locale. Mi picchiavano ogni giorno. Poi, in poco più di due mesi, abbiamo segato le porte della prigione e siamo riusciti a scappare. Sono arrivato a Zuara, sul mare, e ho cercato di partire per l'Italia».

 

«Ho pagato il viaggio grazie a mio zio. Non era una barca, ma un gommone, noi lo chiamiamo Lapa-lapa. Una notte abbiamo incrociato una nave di Save the Children, che ci ha salvato e portato in Sicilia. Era il 14 luglio 2017».

 

«Siamo arrivati a Como il giorno dopo. Quando ho visto la polizia, ho avuto paura. Temevo che mi picchiassero come in Libia. Invece sono stati gentili. Sono stato portato alla Croce Rossa. Ho mangiato bene. Ho potuto lavarmi. Poi sono stato trasferito alla Caritas. A Como sono rimasto per un anno, andavo a scuola e imparavo l'italiano. Era il 2018».

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«Quindi mi sono messo a cercare lavoro a Milano e ho incontrato il signor Leonardo, che mi ha dato una borsa per il cibo e i codici della app di Uber. Nella prima settimana avrei dovuto guadagnare 78 euro, ma non ho avuto niente: dovevo pagare la borsa. Nella seconda me ne spettavano 75, ma ne ho ricevuti solo 20: altre trattenute per quella borsa. C'era sempre una scusa per pagarci di meno. Molti clienti su Internet ci davano le mance, ma io non le ho mai viste».

 

Un’altra vittima di Uber è Mohamed Sunday, nato in Nigeria il 6 giugno 1987. In Italia dal 2017, simboleggia lo schiavo moderno high-tech. La sua storia si incrocia con Flash Road City (Frc), la società intermediaria di Uber. «Il primo colloquio di lavoro l'ho fatto nel marzo 2019 con Leonardo (il titolare di Frc) negli uffici di via Carlini 5, a Milano. Leonardo esibì il contratto e altri moduli che mi fece firmare, senza rilasciarne alcuna copia, nonostante l'avessi chiesta… Il compenso era 3 euro per consegna effettuata, si trattasse di percorrere un chilometro o dieci… In genere effettuavo tra 30 e 50 consegne ogni due settimane, quindi ricevevo tra 90 e 150 euro ogni quindici giorni». L'orario di lavoro era massacrante: 7 giorni su 7, festivi compresi, dalle 10-11 del mattino alle 24/1 di notte. «Se non fossi andato a lavorare, non avrei percepito nessun stipendio».

 

E se gli ordini venivano cancellati dai clienti all'ultimo momento? Niente paga. Perché? «Leonardo diceva che doveva pagare le tasse allo Stato italiano». E le mance pagate dai clienti tramite la piattaforma di Uber? «Mai ricevute». Nel gennaio 2020 Il rider nigeriano è stato licenziato senza preavviso e senza una comunicazione scritta dal «signor Leonardo»: «Diceva che avevo fatto poche consegne, ma non era vero. Allora ha detto che avevo avuto solo il 71 per cento di recensioni positive dai clienti. L’ho chiamato per dirgli che il 71 per cento non mi sembrava poco, ma non mi ha mai risposto».

 

L'inchiesta su Uber, condotta dal pm milanese Paolo Storari, è nata nel 2019 dalla denuncia di un'avvocata di Torino, Giulia Druetta, esperta in cause di lavoro a favore dei rider: è lei che, quando ha letto le chat dell’intermediario, cioè la società Frc, ha capito che in realtà tutti i fattorini lavoravano per Uber. La giuslavorista ora spiega all’Espresso i dettagli dell’esposto presentato nel febbraio 2020, insieme all’avvocato Sergio Bonetto, alla Procura di Torino: «Tutti gli indizi portavano in quella direzione, a Uber. L'applicazione usata per gestire il lavoro era di Uber. Il nostro esposto è stato poi trasmesso a Milano, dov’era già in corso un'indagine. È stato come aprire il vaso di Pandora. In quegli atti, a nostro avviso, c'era la conferma della nostra ricostruzione dei fatti. La Frc non aveva alcun potere decisionale. Era un'impresa individuale, con un solo collaboratore autonomo, eppure in pochi mesi aveva reclutato 750 rider in sei città. Era Uber a stabilire in quali città operare e la quantità di personale da impiegare; in quale zona dove si doveva trovare il lavoratore e a che distanza dal ristorante per vedersi attribuito un ordine; quanti rider erano necessari su strada nelle varie fasce orarie per ogni settimana, il cosiddetto ‘supply hours’. Era Uber a controllare la percentuale di accettazione o rifiuto degli ordini, il comportamento, disciplinato o no, del rider, e perfino il tasso di completamento orario delle consegne».

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«In base ai dati raccolti, era sempre Uber a decidere di bloccare sull'applicazione, in pratica a licenziare, i rider indisciplinati o non produttivi, impedendo loro di proseguire l'attività lavorativa. D'altronde, chi poteva fare analisi sulla produttività dei lavoratori o intervenire sull'applicazione, se non chi la dirigeva e disponeva quindi dei dati?» «Insomma, secondo la nostra ricostruzione, tutta la gestione era nelle mani di Uber, salvo la titolarità dei contratti di lavoro occasionale dei rider, attribuiti a Frc. Stiamo parlando di oltre 700 lavoratori assunti con contratto di lavoro occasionale, senza alcuna tutela, pagati da 3 a 3,5 euro a consegna, controllati in ogni momento da un'applicazione che ne rileva la produttività. E sanzionati se ritenuti non abbastanza produttivi, o indisciplinati.

 

«I lavoratori, poverissimi, ricevevano salari bassissimi, pagati a cottimo. Con rapporti di forza totalmente squilibrati a favore dei padroni. Nessuna tutela. E le tecnologie di Internet usare per controllare e spiare la manodopera», conclude l’avvocata dei rider: «È questo il nuovo modello di lavoro smart dei nostri tempi? È questa la new economy?».