Accordi milionari con gli oligarchi. Patti riservati con i banchieri. Pagamenti offshore in cambio di una legge di favore. Tutti i segreti dello sbarco del colosso Usa a Mosca

Pur di sfondare in Russia, i manager americani di Uber le hanno provate tutte. Hanno firmato accordi riservati con gli uomini più vicini a Vladimir Putin. Alleanze con la prima banca statale. Scambi di ricche quote azionarie. E consulenze pericolose, al limite della corruzione.

 

La lista degli oligarchi agganciati dal colosso californiano dei trasporti comprende diversi miliardari oggi colpiti dalle sanzioni internazionali dopo la guerra in Ucraina: da Roman Abramovich ai banchieri Herman Gref, Mikhail Fridman e Petr Aven, fino al re dell’acciaio Alisher Usmanov. Magnati russi che hanno interessi importanti anche in Italia, dove Aven e Usmanov, in particolare, si sono visti congelare ville e proprietà milionarie dalle squadre investigative della Guardia di Finanza che applicano le sanzioni.

 

A svelare i segreti della campagna di Russia lanciata dalla multinazionale americana sono gli Uber Files, oltre 124 mila documenti aziendali riservati ottenuti dal quotidiano inglese The Guardian e condivisi con l'International Consortium of Investigative Journalists (Icij), di cui fa parte L’Espresso in esclusiva per l’Italia. Le carte rivelano le operazioni di lobby organizzate dal 2013 al 2017, che a Mosca si sono intensificate tra il 2015 e il 2016, in contemporanea con massicce campagne di pressioni su politici e governi in Francia, Olanda, Italia e altri paesi europei. Sono sempre gli stessi manager ad entrare in scena: David Plouffe, famoso nel mondo come ex consulente elettorale di Barack Obama, diventato vicepresidente Uber dal 2014, e Mark MacGann, responsabile fino al 2016 della politiche aziendali del gruppo in Europa, Africa e Medioriente.

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Il primo obiettivo di Uber è Roman Abramovich. È un perfetto uomo-ponte, popolare in Occidente come patron del Chelsea, con forti entrature in Russia. Ne nasce una trattativa riservata, ma l'affare non viene concluso. A quel punto entra in scena Herman Gref, il capo della Sberbank, la più importante banca statale russa, molto influente e vicinissimo a Vladimir Putin, con un passato politico da ministro dell'Economia e dello Sviluppo. I lobbisti di Uber sanno che questo banchiere ama la Silicon Valley e le società high-tech americane, al punto da accompagnare proprio lì, nel cuore della California, nei primi mesi del 2015, lui e ben 36 dirigenti della Sberbank.

 

La strategia per imporre Uber nelle principali città della Federazione russa è descritta in un rapporto interno di nove pagine, che elenca anche altri oligarchi e personalità pubbliche da avvicinare. Ci sono Mikhail Fridman e Petr Aven, soci della conglomerata Alfa Group, che controlla la prima banca privata russa e molte altre aziende. Il presidente della compagnia di bandiera Aeroflot, Kirill Androsov; il sindaco e il vicesindaco di Mosca, Sergei Sobyanin e Maksim Liksutov.

Nelle prime righe del documento si legge che Uber dovrà «tenere un basso profilo, data l'attuale situazione geopolitica». La multinazionale, fondata nel 2009 a San Francisco, è cresciuta molto in fretta, ha una grande visibilità mondiale e sta attirando l'attenzione delle autorità di controllo, magistratura, uffici fiscali e agenzie antimonopolio in molte nazioni. In Russia c’è soprattutto il problema delle sanzioni, che hanno colpito molti oligarchi già dal 2014 dopo l'annessione della Crimea. Per preparare il terreno con una vigorosa attività di lobby, gli esperti di Uber elaborano una mappa della nomenklatura russa, suddividendo i nomi di spicco in quattro gironi. Nel primo (“Executive”), c'è solo un nome: Putin. Nel secondo (“Legislative”), ci sono quattro caselle, la più importante è per Dmitri Medvedev, allora primo ministro.

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Nel livello inferiore ce ne sono altre cinque, la prima è per il ministro dei Trasporti, Maxim Sokolov. Il quarto girone (“Business”) è il più affollato: ci sono i tre big dell’economia, Gref, Friedman e Aven, insieme a un altro banchiere, Lev Khasis, vicepresidente di Sberbank. Ma c’è anche Alexei Kudrin, ex ministro delle Finanze. Gli oligarchi Fridman e Aven vengono indicati nelle carte di Uber anche come principali azionisti di una società lussemburghese d’investimenti, Letter One Holdings.

 

In altri documenti riservati risalta il nome di Vladimir Senin, un lobbista di Alfa Group: viene ingaggiato nel 2016 con un contratto da 650 mila dollari per promuovere nel Parlamento russo una legge pro-Uber.

 

All’inchiesta giornalistica Uber Files hanno partecipato più di 180 giornalisti di 29 nazioni, tra cui L’Espresso in esclusiva per l'Italia. Domenica 10 luglio, quando 44 testate internazionali hanno cominciato a pubblicare i primi articoli in simultanea in tutto il mondo, l'autore della fuga di notizie ha deciso di uscire allo scoperto. È Mark MacGann, 52 anni: grande capo dei lobbisti di Uber fino al 2016. Che oggi spiega al consorzio: «Uber ha giocato con le vite della gente. Io sono disgustato e mi vergogno di essere stato parte di questa politica aziendale volgare e violenta».

Mikhail Fridman

Tra le carte sullo sbarco di Uber a Mosca spicca una nota interna, intitolata «Domare l’Orso» (Taming the Bear), che delinea il piano per conquistare il mercato russo. Un primo risultato viene raggiunto in fretta. Dopo un viaggio a Mosca del lobbista americano David Plouffe, nell’estate del 2015, per incontrare Herman Gref, c’è il primo accordo. In settembre Uber e Sberbank firmano un memorandum. Un piano in tre punti, con vantaggi per entrambi. La banca lancia un programma di finanziamenti agevolati per l’acquisto delle vetture per gli autisti di Uber. Partito in servizio, i clienti di Sberbank ricevono punti fedeltà in base al numero di corse con Uber, con un’operazione commerciale chiamata Spasibo, che in russo significa grazie. Mossa finale: la banca emette una carta di credito «privilegiata» per chi usa Uber.

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L’alleanza in cantiere Uber-Sberbank viene però attaccata dalle organizzazioni dei tassisti russi. Inferociti, il 7 settembre 2015 scrivono al primo ministro Medvedev una lettera di fuoco contro «l’intesa tecnologica e finanziaria tra Uber e Sberbank». Già dal giugno 2015 Sberbank sta inviando sms ai possessori di carte di credito offrendo bonus speciali a chi ricorre agli autisti di Uber invece di chiamare il taxi. «Ciò significa che Sberbank pubblicizza i servizi del suo partner», osservano i sindacati dei tassisti. Che denunciano al premier: questo patto indebolisce la concorrenza dei taxi, abbassa gli stipendi dei lavoratori tagliando i prezzi, viola le leggi in vigore. I tassisti sospettano corruzione ed evasione fiscale. Chiedono: è normale un accordo del genere per il più grosso istituto di credito russo? Perché la Sberbank riserva a Uber condizioni di favore? La lettera termina con un appello a Medvedev perché affidi al ministro della Federazione russa Mikhail Abyzov il compito di rispondere alle loro denunce. Come sia finita la querelle, i documenti di Uber Files non lo spiegano fino in fondo.

 

È certo invece che lo schema ideato per domare l’orso russo prosegue con altre tappe importanti. Determinante, la partecipazione al World Economic Forum di Davos, in Svizzera, nel gennaio 2016. Al di là dei seminari ufficiali e degli interventi pubblici dei relatori, conta molto di più il networking, ovvero la capacità di intavolare, dietro le quinte, discussioni o trattative, che possano aprire spiragli a futuri business. Un rodaggio per future entrature. Nelle Alpi dei Grigioni il networking comincia a funzionare, per Travis Kalanick, che è uno dei due fondatori di Uber. Tra i vari appuntamenti, ce ne sono due da apripista. Kalanick vede un top manager di Alisher Usmanov, l’oligarca miliardario, con interessi dall’industria metallurgica ai media, concentrati nella sua Usm Holdings, che già mesi prima risulta aver investito 20 milioni di dollari in Uber. Ma l'incontro ha anche un altro scopo: puntare sulla sua influenza politica in Russia.

 

Anche un secondo incontro promette bene per il boss di Uber. All’hotel Belvedere, un cinque stelle di gran lusso, c’è Alexey Reznikovich, socio di Letter One Technology, filiale della lussemburghese Letter One Holdings. Travis lo incrocia e ne resta soddisfatto, al punto da annotare la seguente frase: «Sembra che siamo vicini a un accordo”. Mark MacGann nelle mail ai dirigenti lo adula: «TK (Travis Kalanick) ha fatto un grande lavoro, ha creato un contatto forte».

 

In effetti poche settimane dopo, in febbraio, un comunicato stampa annuncia che Letter One ha comprato azioni Uber per 200 milioni di dollari. Una quota considerata «strategica». Una formula sibillina, che nasconde un retroscena: una parte dell'accordo è segreta. Uber aveva offerto alla società russa di investire anche 50 milioni di dollari in warrant (diritti di acquistare azioni di Uber) a un prezzo vantaggioso. Un favore netto, in cambio di «assistenza e consulenza» ai piani alti dei palazzi della politica russa. A San Francisco sono raggianti. Si sentono arrivati ai vertici del potere di Mosca. E sempre nel memo «Taming the Bear» osservano: abbiamo il «supporto personale» di Fridman, Aven e Gref. E aggiungono testualmente: «Con il loro aiuto abbiamo, in teoria, una linea diretta con il Cremlino… L’interessamento di Mikhail Fridman, Petr Aven e Herman Gref, vicini a Vladimir Putin, significa che possiamo contare su una consulenza e un aiuto politico ad alto livello».

 

In questa fase delicata dei rapporti tra Uber e Mosca, scende in campo un personaggio importante, molto ammanicato, attivista politico con il «Partito della crescita» allineato al Cremlino, un putiniano di ferro. Si chiama Vladimir Senin, è anche un manager di Alfa Group, un lobbista interno. Lavora per Fridman e Aven. E sono proprio i due banchieri a segnalarlo a San Francisco come spiccia-faccende: nelle carte viene definito «fixer» ed è chiamato a operare solo «a discrezione» di Uber, quasi a voler prendere le distanze da possibili futuri pasticci. La richiesta è delicata: contribuire a far passare in parlamento una nuova legge ad hoc per il settore del trasporto privato urbano, il mercato di Uber. Ma imbarcare Senin ha un prezzo. Quando al quartier generale californiano si sentono indicare la cifra di 800 mila dollari, i capi si preoccupano. E consultano primari studi legali. Il loro parere è tranchant: in caso di «tangenti per ungere le ruote» versate a un «agente straniero», come viene definito Senin, c’è il rischio di essere accusati di violare le severe leggi americane contro le corruzioni internazionali. Nonostante questo parere legale, ai primi di maggio del 2016 Uber decide ugualmente di procedere, abbassando però l'importo a 650 mila dollari.

 

Alla Duma, la camera bassa del Parlamento, la legge sui taxi però non passa. Senin non vuole comunque sentir ragione. Due mesi dopo, in luglio, manda la fattura per il suo compenso, ridotto successivamente a 300 mila dollari, da bonificare su un conto in Russia, via New York, intestato alla società offshore Btc Llc, creata lo stesso giorno della sigla del contratto con Uber. Non male per tre mesi di lavoro. Divertente, o forse provocatorio, lo pseudonimo latino usato da Senin nella sua email sulla società di copertura: «Alter ego».

 

Proprio mentre Uber manda avanti il suo lavoro opaco, Travis Kalanick organizza un viaggio a Mosca, anche per ricambiare una visita che il banchiere Herman Gref aveva fatto al quartier generale di Uber a San Francisco nel marzo 2016. Il 6 aprile gli scrive personalmente, augurandosi che la Sberbank investa nel gruppo americano. Il 29 aprile anche il manager Mark MacGann manda una mail al banchiere di Putin, per organizzare l’incontro con Travis durante il viaggio a Mosca, dal 5 al 7 giugno, e per chiedergli di introdurlo anche presso altri imprenditori russi interessati a far espandere il business della multinazionale.

 

Il primo meeting si svolge domenica 5 giugno allo Strelka Institute for Media and Design, con il miliardario Alexander Mamout, un magnate dei media con un patrimonio personale di 2,5 miliardi di dollari, in una giornata fredda. Travis Kalanick deve parlare alle 8 di sera davanti a 1700 persone. Un discorso che lo mette in ansia, tanto che un’ora prima chiede allarmato alla sua segreteria: «Dove sono finite le note per il mio discorso?».

 

Il secondo giro di incontri, lunedì 6, si snoda in tre tappe. Il primo appuntamento, al ristorante italiano Il Forno, è con Arkady Dvorkovich, il vice primo ministro russo. Poche ore dopo, nel pomeriggio, c’è un meeting con Fridman, nella sede di Alfa Bank. Alla sera, in un clima piovigginoso, grande cena nel lussuoso Moscow City Golf Club con Herman Gref, a due passi dal fiume Moscova. Mark MacGann commenta l'evento con queste parole: «Dio ama i russi, dove affari e politica sono così…intimi».

 

Da notare che la squadra di Uber non usa taxi o autisti privati, con il rischio di perdersi nel traffico urbano, ma viaggia in metropolitana. Mark MacGann ci scherza sopra: «La buona notizia: abbiamo preso la metro per essere in orario da Herman Gref, invece di arrivare con 45 minuti di ritardo. La brutta notizia: siamo passati da alcune stazioni orrende, che ricordano quelle di Londra come Elephant Castle».

 

Martedì 7 Travis riparte. I suoi collaboratori sono soddisfatti per il successo del viaggio e MacGann riassume: «Una grande immersione di 36 ore». Un entusiasmo che però viene raffreddato da una dichiarazione a sorpresa di Dvorkovich, il vicepremier, che evidentemente è preoccupato per le proteste dei taxi. Il 16 giugno il numero due del governo russo dichiara di essere contrario a Uber perché «danneggerà la nostra società», come si legge in una email interna dei manager americani.

 

Nonostante gli sforzi, gli appoggi di alcuni oligarchi non sono bastati a conquistare Mosca. La legge pro Uber non passa. E per la multinazionale finisce un’era. Mark MacGann, stanco del suo lavoro sporco, si dimette da Uber nell'agosto 2016 e continua a fare solo qualche consulenza fino al 2017, quando si fermano le notizie degli Uber Files.  Nel giugno di quell’anno anche Travis Kalanick lascia la carica di amministratore delegato, su pressione degli azionisti preoccupati da un’ondata di indagini e cause civili avviate negli Stati Uniti contro la multinazionale, per sfruttamento del lavoro degli autisti, aggravate da accuse di razzismo e scandali sessuali. 

 

The Guardian e Icij, a nome di tutti i giornalisti del consorzio, hanno inviato domande circostanziate a tutti i protagonisti di questo capitolo russo degli Uber Files. Una portavoce di Kalanick ha replicato con una nota scritta: «Le sue iniziative per espandere il business di Uber in Russia si sono limitate a un viaggio e a pochi incontri. Il signor Kalanick ignora se qualcuno che ha agito a nome di Uber abbia tenuto un comportamento che potrebbe aver aggirato la legge russa o americana». Kalaninick non ha risposto alle domande sul piano segreto di Uber in Russia.

 

Il banchiere Petr Aven ha dichiarato al Guardian di ricordare soltanto un meeting con un dirigente di Uber e ha aggiunto che lui non era coinvolto personalmente nell'investimento. Ha detto di non aver mai fatto lobby a nome di Uber. E ha giurato: «Sono assolutamente fuori dalla politica».

 

Anche Mikhail Fridman ha minimizzato il suo ruolo nell’affare con Uber: «A parte il mio breve incontro con il signor Kalanick, non c’entro proprio con investimenti in Uber o con qualsiasi attività di lobby».

 

Un portavoce di Letter One ha affermato che la società ha venduto le sue azioni di Uber nel 2019. E ha dichiarato che «non ha fornito un servizio di lobby», limitandosi a un accordo che prevedeva «assistenza e consulenza strategica». 

 

Vladimir Senin, Herman Gref e il vertice di Sberbank non hanno risposto alle domande. Tramite il suo portavoce, Alisher Usmanov ha fatto sapere al Washington Post che la sua Usm Holdings in passato ha fatto molti investimenti tecnologici, che includono, tra l'altro, «Apple, Facebook, Spotify, Alibaba e Airbnb». Per cui «è assurdo pensare che la sua holding o i suoi azionisti possano agire come lobbisti politici per conto di Uber». Conclusione: «Usm ha fatto un investimento in Uber e dopo un certo periodo ne è uscita, realizzando un profitto che non vogliamo rivelare».