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Addio Mikhail Gorbaciov, eroe tragico che provò a salvare l’Unione Sovietica
L’ultimo segretario del Pcus scompare all’età di 91 anni. Le sue riforme furono l’ultimo tentativo, tardivo, di tenere in piedi il gigante rosso
Nel marzo del 1985 il Comitato centrale del Partito comunista sovietico elegge un relativamente giovane (aveva 54 anni) burocrate Mikhail Gorbaciov alla carica del Primo segretario. L’Unione sovietica, all’epoca, è retta da una gerontocrazia priva di immaginazione e che governa coi metodi di segretezza modellati sull’esempio di satrapie orientali: esisteva perfino un scienza, la cremlinologia, che da segni difficilmente percettibili, come l’ordine di apparizione dei leader a qualche cerimonia ufficiale, traeva conclusioni su ciò che succedeva ai vertici di potere. Nel vicino Afghanistan è in corso una guerra che le truppe dell’Urss non sono in grado di vincere; ogni giorno aerei Antonov riportano nell’Urss bare con cadaveri di ragazzi morti inutilmente. E ancora: l’economia è a pezzi, causa inefficienza, corruzione, clientelismo. Il fianco occidentale del Paese è un’altra ferita aperta: in Polonia il movimento di Solidarnosc, guidato da Lech Walesa, continua la sua attività, nonostante anni prima fosse stato messo fuori legge, ed è aiutato dalla Chiesa e dal pontefice Karol Wojtyla. E ancora: il dissenso, così si chiamava quel fenomeno che vide intellettuali e attivisti democratici organizzare una vera opposizione ai regimi autoritari, ha preso piede in Cecoslovacchia (protagonista un grande scrittore Václav Havel), Ungheria, perfino nella Ddr. Tutto questo, mentre il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, affiancato dalla premier britannica Margaret Thatcher, è convinto che quello comunista fosse “l’impero del Male”, condannato a morte (simile intuizione ebbe da noi Bettino Craxi, l’unico tra i leader italiani a onor del vero).
È difficile sapere quale fosse il vero programma politico di Gorbaciov nel momento in cui diventò il padrone del Cremlino. Probabilmente, stava pensando a una graduale riforma del paese, a qualche misura per rendere l’economia un po’ più vivace. Ma, spesso nella storia accade che un incidente in apparenza tecnico, finisce per cambiare il corso degli eventi e lo spirito del tempo. È stato questo il caso del disastro di Cernobyl nell’aprile del 1986. L’esplosione di un reattore nucleare e la nube radioattiva che si propagò per tutto il continente, fino all’Oceano Atlantico non potevano essere nascosti all’opinione pubblica, come avveniva invece in Urss, per decenni.
Il mistero cui era avvolta la vita dei sovietici era tale che non venivano pubblicati elenchi telefonici; le cartine geografiche portavano dati falsi, conglomerati urbani di importanza militare, ufficialmente non esistevano. Gorbaciov colse quindi l’occasione dell’indicente nucleare per farla finita con l’ossessione della segretezza. Il segretario del Pcus aveva compreso che senza la libertà d’informazione l’Urss sarebbe stata condannata a morte. O meglio, il suo tentativo di introdurre la libertà di parola (lo chiamò glasnost, seguì un progetto di riforma dell’economia definito perestrojka) fu un tentativo eroico e tragico, tragico perché intrapreso troppo tardi e non per colpa sua, di salvare il salvabile.
In questa sua impresa Gorbaciov trovò un alleato in Andrej Sacharov, premio Nobel per la pace, confinato da anni nella città di Gorkij (Nižnyj Novgorod). La scena è da grande romanzo: il 23 dicembre 1986, l’uomo, che siede al Cremlino (simbolo di un potere assoluto) chiama al telefono il suo prigioniero più illustre e gli dice: da domani sei libero e sappi che ho bisogno di te. I primi a capire quello che stava accadendo a Mosca sono stati i polacchi. Il paese era allo stremo; nei negozi mancavano beni di prima necessità; gli ospedali erano privi di medicine. I comunisti non erano più in grado di governare: per stanchezza, per mancanza di fiducia in se stessi, e lo sapevano bene. Dall’altro lato della barricata, nonostante la messa fuori legge di Solidarnosc (dicembre 1981) in seno all’opposizione democratica ha continuato a crescere una classe politica straordinariamente ben preparata, colta, intelligente e generosa. E basti pensare a intellettuali come il cattolico Tadeusz Mazowiecki (fu il primo Presidente del Consiglio non comunista; mori nel 2013, povero); o il grande storico Bronislaw Geremek, o a Jacek Kuron ́ (nove anni nelle patrie galere; a casa sua non chiudeva mai la porta perché chiunque potesse entrare e chiedere aiuto).
A Varsavia nel 1988 i comunisti intavolavano un negoziato con l’opposizione e con la mediazione della Chiesa, e che finì con il passaggio di potere l’anno dopo. Seguivano, con un simile modello, gli ungheresi. Poi, manifestazioni di piazza hanno finito per rovesciare gli altri regimi, e fino e oltre (in caso cecoslovacco) alla sera del 9 novembre 1989 in cui è caduto il Muro. Comunque, quelle rivoluzioni furono, tra le ultime guidate da grandi intellettuali prestati alla politica (in Cecoslovacchia da Václav Havel, una delle menti più eccelse del secolo scorso), e forse per questo, prive di rancore e generose invece. L’entusiasmo era contagioso. Tanto che in Palestina era in atto l’Intifada, una rivolta popolare contro l’occupazione israeliana, mentre in Cina gli studenti reclamavano libertà e democrazia.
Di quell’entusiasmo, come si diceva, rimane poco. Ma due cose vanno ribadite. La prima: la memoria, anche e soprattutto quella degli in apparenza sconfitti (come appunto i generosi intellettuali o Gorbaciov) può in ogni momento trasformarsi in un progetto dell’avvenire. Lo sapeva bene il grande pensatore ebreo tedesco Walter Benjamin. La seconda cosa da ricordare è che nessuno può negare quanto nonostante tutto l’Europa sia oggi un posto migliore: basta andare in visita a Berlino, Varsavia o Vilnius per constatarlo. E comunque quel Muro doveva cadere.