Dopo le elezioni dell’ottobre scorso i partiti non sono riusciti a dar vita a un governo e ora si profilano nuove consultazioni. Ma i leader accendono la piazza e innescano la violenza

Almeno 30 morti e 380 feriti in meno di 24 ore. È questo il bilancio del 29-30 agosto a Baghdad, giorni in cui il leader sciita Moqtada al-Sadr della coalizione vincente alle ultime elezioni di ottobre 2021, ha premuto il tasto “play” e poi “stop” con la sua abituale sequela di annunci, richieste e dichiarazioni, spesso in forma di tweet. Prima, comunicando il suo ritiro dalla vita politica, che ha scatenato l’irruzione dei suoi sostenitori nella Green Zone e quindi attorno ai palazzi governativi, e lo scontro in strada con le forze armate e le milizie sciite pro-Iran rivali; e il giorno dopo, chiedendo il ritiro e la fine della violenza, richieste alle quali i suoi sostenitori hanno prontamente obbedito, liberando la Green Zone nel giro di un’ora.

 

«Abbiamo passato 24 ore molto dure», racconta a L’Espresso Ibtisam Aziz, che lavora nell’ufficio del dipartimento del primo ministro, e che abita nella stessa Green Zone, considerata per molto tempo inattaccabile, essendo l’area più militarizzata della capitale irachena e sede delle ambasciate, simbolo del potere e dei privilegi contro cui i cittadini iracheni continuano a protestare.

 

«Non abbiamo dormito tutta la notte a causa dei combattimenti e del caos, oltre ai danni che sono stati fatti alle fogne, ai serbatoi dell’acqua e alle finestre». Nelle stesse lunghe ore di Aziz, i sostenitori di Moqtada al-Sadr hanno anche nuotato nella piscina del palazzo presidenziale, tuffi che ricordano l’irruzione nel palazzo presidenziale dello Sri Lanka, per protesta contro la crisi economica del Paese, solo due mesi fa. Qui, però, al netto di tuffi e passeggiate, si sono riversati gli uomini di milizie armate fino ai denti e che possono in poche ore far piombare il fragile Paese nell’incubo della guerra civile. Da un lato, Saraya al-Salam, le “Brigate della Pace”, fedeli ad al-Sadr; dall’altro l’esercito e i paramilitari filoiraniani di Hashd el-Shaabi, le “Forze di mobilitazione popolare”, le stesse che hanno combattuto a Mosul contro l’Isis e che sebbene formalmente integrate nelle truppe regolari, mantengono un loro potere di milizia su diversi territori. «Hamdulilla, grazie a Dio un milione di volte, è finito tutto in un giorno», conclude Aziz: «Perché se si fosse prolungato ancora, sarebbe stato ancor più difficile fermarlo: come la guerra civile in Libano, che è durata 15 anni».

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Fuori dalla Green Zone invece, la testimonianza di Husam Sobhi, riferisce di una tensione non ancora terminata: «Le strade di Baghdad sono nervose, piene di paura che la violenza possa riesplodere da un momento all’altro», dice l’attivista e ambientalista che ha preso parte per mesi alle proteste di ottobre 2019, la rivoluzione di ottobre in piazza Tahrir, repressa fortemente dalle forze di sicurezza irachene con centinaia di morti e migliaia di feriti. «Adesso, e sottolineo queste mie parole, fino ad adesso, non è più successo niente, ma viviamo sul chi va là. Io abito non distante dalla Green Zone: è stato un giorno terrificante, sentivamo spari, granate, missili, tutto il tempo fino alle 4 del mattino».

 

Queste ore sono il risultato di mesi di stallo politico a seguito delle elezioni in cui la coalizione vincente di al-Sadr, che voleva creare una maggioranza con il partito sunnita Taqqadum, guidato da Al-Halbusi e il Partito democratico del Kurdistan (Kdp), guidato da Masoud Barzani, non è riuscita a formare il governo. I partiti che non hanno ottenuto un numero sufficiente di voti (principalmente le forze sostenute dall’Iran) non erano soddisfatti dei risultati e hanno rifiutato la formazione di una maggioranza di governo che non li comprendesse, alleandosi nel “Quadro di coordinamento”, al fine di aumentare i propri numeri e sostituire il movimento di al-Sadr.

 

Così, a giugno il politico e leader religioso ha chiesto un ritiro di massa dei suoi parlamentari e a fine luglio ha incitato all’occupazione del Parlamento che è durata oltre un mese. I lavori in aula sono ripresi solo il 4 settembre, e il giorno seguente i vertici dell’esecutivo iracheno e i principali partiti hanno concordato, in una riunione boicottata da al-Sadr, di lavorare per indire elezioni anticipate. L’ufficio del primo ministro ancora in carica Mustafa al-Kadhemi ha scritto in un comunicato che i rappresentati politici dei partiti hanno «concordato di formare un comitato tecnico che comprenda le varie forze politiche (…) per arrivare a elezioni anticipate», una delle richieste anche di al-Sadr e dimostranti.

 

Per quanto l’Iraq post-2003 non sia stato estraneo a crisi politiche infra-sciite, quest’ultima ha rappresentato uno dei momenti più gravi, in un periodo storico in cui la fiducia dei cittadini verso il mondo politico è ormai perduta, come ha provato la bassissima affluenza alle urne dello scorso ottobre. Cosa che rischia di ripetersi alle prossime, ennesime, elezioni anticipate. La figura di al-Sadr incarna in parte gli ultimi decenni di storia irachena: figlio di uno dei chierici sciiti uccisi dal regime di Saddam Hussein, si è fatto leader della lotta armata contro l’invasione americana post-2003 che ha buttato giù il regime di Saddam. Da allora, non ha mai abbandonato la scena politica, rendendosi protagonista di terremoti e volendo testare costantemente il suo consenso tra la popolazione più povera.

 

La società civile irachena, così come riunita nel gruppo “Iniziativa di solidarietà della società civile irachena”, vede le sfide politiche, ambientali, sociali molto urgenti e scottanti, e però non si arrende, ribadendo nell’ultimo comunicato che l’unica cosa che vogliono gli iracheni è la pace. «Gli iracheni vogliono la pace! La società civile irachena fa appello al governo e alle forze politiche irachene affinché scelgano la strada del dialogo, del disarmo e della pace. Chiede il rispetto delle richieste sollevate durante la rivolta del 2019, da parte dei giovani iracheni, per chiedere che il settarismo sia eliminato dalla politica irachena». E non dimentica chi, proprio in nome di un futuro migliore per l’Iraq, non è più tra loro: «Chiediamo al governo iracheno di riconoscere le libertà civili (…) in memoria di tutti quei giovani che hanno perso la vita nel 2019».