«Negli anni ’80 negli Usa furono messe in atto misure restrittive che hanno poi prodotto una grave recessione in America Latina. Si deve fare meglio affidandoci alla politica fiscale». Parla l’economista francese Daniel Cohen

Presidente e cofondatore con Thomas Piketty della Paris School of Economics, l’economista francese Daniel Cohen, autore in Francia di “Homo numericus” (Albin Michel), analizza le prossime sfide economiche dell’Europa.

 

L’inflazione è tornata dopo un’assenza di circa 15 anni. È la tassa più ingiusta perché colpisce maggiormente le fasce di reddito più basse. È preoccupato per il probabile aumento delle disuguaglianze nelle nostre società? Cosa si può fare?
«Sono ovviamente preoccupato per l’inflazione in quanto tale, ma ancor più per il modo in cui viene affrontata. Negli anni ’80, sotto la politica monetaria di Paul Volcker negli Stati Uniti, furono messe in atto misure molto restrittive per interrompere la spirale inflazionistica che si era verificata negli anni ’70. Ciò ha prodotto una grave recessione e ha causato una grave crisi finanziaria in America Latina. Spero che questa volta si possa fare meglio».

 

In questo contesto, i governi dovrebbero proteggere a tutti i costi le famiglie dalla perdita di potere d’acquisto?
«L’idea prevalente è quella di ridurre l’inflazione attraverso la politica monetaria, riducendo la liquidità. Il professor Francesco Giavazzi, consigliere economico di Mario Draghi, ha tenuto una conferenza molto interessante a Parigi in cui ha spiegato che dobbiamo cambiare il nostro modo di pensare. Dobbiamo affidarci maggiormente alla politica fiscale per affrontare l’inflazione, congelando alcuni prezzi e compensando i segmenti più vulnerabili della popolazione con trasferimenti ben mirati. L’aumento dei prezzi dell’energia colpisce le famiglie in modo molto diseguale ed è questa la preoccupazione che possiamo nutrire per la crescita delle disuguaglianze. Sono le classi lavoratrici le più colpite dall’inflazione, poiché sono quelle che dipendono maggiormente dall’energia, spesso vivono lontano dai centri urbani e dipendono dall’automobile, e più spesso l’isolamento termico degli edifici delle classi lavoratrici è molto scarso. Il modo migliore per rispondere a questa inflazione è quindi quello che stiamo cercando di fare in Francia e in altri Paesi in modo non abbastanza sistematico, con una politica di bilancio volta a sostenere le famiglie più vulnerabili».

 

C’è qualcosa in comune tra la crisi del 2008 e quella che stiamo affrontando oggi?
«La crisi che più assomiglia a quella che stiamo vivendo oggi è quella degli anni ’70, all’epoca dello shock petrolifero. Il contesto è molto diverso, ma quello shock ci ha fatto capire quanto la nostra società fosse dipendente dal petrolio. Lo shock petrolifero è avvenuto subito dopo quelli che chiamiamo i trent’anni gloriosi, un periodo di straordinaria prosperità economica, subito dopo la guerra, che ha interessato la maggior parte dei Paesi occidentali come la Francia, dove la crescita media è stata del 5%, o l’Italia, la Germania, gli Stati Uniti. Dopo varie crisi, a partire da quella dei subprime, la pandemia ha avuto un effetto paradossale: nel 2021, finiti i vari confinamenti, c’è stata una sorta di euforia, il sollievo che i vaccini avrebbero permesso di superare la pandemia. Negli Stati Uniti, questa situazione ha dato origine al fenomeno noto come “great resignation”, le persone non volevano tornare ai loro lavori precari prima della pandemia, e in Francia, gli studenti hanno finalmente potuto lasciare le loro piccole stanze. Rispetto agli anni ’70, la crisi attuale non si verifica quindi dopo 30 anni di abbondanza, ma piuttosto dopo un solo anno di euforia..».

 

È particolarmente preoccupato per il pesante debito italiano?
«Credo che tutto il mondo sia preoccupato per il debito italiano. Non è tanto il livello del debito a preoccuparci, che attualmente è del 150% del Pil in Italia e del 115% in Francia, quanto piuttosto l’aumento dei tassi per combattere l’inflazione. In Italia stanno aumentando più che in Francia, ad esempio, vicino al 4%, sono raddoppiati rispetto a due anni fa. Questo crea il rischio di panico, di sfiducia da parte dei debitori, che potrebbe innescare una situazione esplosiva. Tuttavia, dobbiamo fare attenzione all’inflazione quando calcoliamo il costo del debito. Se vi do 10 in interessi, non è la stessa cosa con l’inflazione al 10% o al 5%. Il costo del debito si riduce a causa dell’inflazione. La Banca Centrale Europea è preoccupata, ha annunciato che sta monitorando l’aumento dello spread, il differenziale dei tassi di interesse tra Italia e Germania. La situazione non è ancora esplosiva». 

 

La bolletta energetica europea, ai prezzi attuali, è aumentata di oltre 1.000 miliardi di euro rispetto al periodo precedente al conflitto russo-ucraino. Questo rappresenta un impoverimento molto rilevante dell’economia europea e un ulteriore aumento del debito pubblico dei nostri Paesi. Teme le conseguenze della perdita di competitività del nostro sistema economico rispetto a Stati Uniti e Cina?
«Per il momento, dato che i tassi d’interesse non stanno aumentando più velocemente dell’inflazione, non c’è alcun rischio di panico. Potrebbe esserci un rischio reale per la competitività se l’Europa, a causa della guerra in Ucraina, diventasse una regione energeticamente più costosa rispetto ad altri Paesi come gli Stati Uniti o la Cina. La soluzione a questo rischio è accelerare la transizione verso fonti di energia alternative e rinnovabili, oppure cercare di importare gas da altri Paesi, come Draghi si è affrettato a fare quest’anno aumentando le importazioni di gas dall’Algeria. Ursula Von der Leyen ha già annunciato di voler portare al 50% l’obiettivo del 35% di energie rinnovabili entro il 2030».

 

Gli obiettivi di riduzione della CO2 possono compromettere la crescita?
«Quest’anno in Italia c’è stata una crescita significativa del 3%, ma l’anno prossimo sarà pari a zero come negli Stati Uniti. La Cina, che una volta aveva salvato la Germania dalla recessione con una rapida crescita, questa volta è impantanata nei suoi stessi problemi, tra cui una grave crisi immobiliare e una catastrofica politica zero covid. La Germania è il Paese più vulnerabile d’Europa, poiché ha basato il suo modello di crescita sull’importazione di gas dalla Russia per produrre automobili che vengono poi vendute in Cina. Essendo la Germania la più grande economia europea, tutto questo creerà pressioni recessive.

Dobbiamo chiederci cosa significhi oggi crescita, cioè come misurare il benessere, se con il Pil e quindi con il numero di automobili che escono dalla fabbrica o con il criterio di una migliore vita urbana, di una scuola di qualità, di un buon sistema sanitario».

 

Dopo la pandemia e il conflitto in Ucraina, gli Stati Uniti hanno inaugurato una nuova forma di protezionismo: i piani di investimento pubblico stanno tornando prepotentemente in auge, così come i piani di rilocalizzazione di attività industriali critiche sul territorio nazionale. Stiamo assistendo a un ritorno del protezionismo economico su scala globale?
«Senza dubbio. Tutto è iniziato con la creazione da parte di Trump di tasse sulle importazioni europee e cinesi. Con la pandemia abbiamo scoperto che le catene del valore erano molto fragili. La globalizzazione iniziata con la caduta del Muro si sta ora riducendo e siamo entrati in una fase di progressiva demondializzazione. Quando nel 2008 si è verificata la crisi dei subprime, gli economisti hanno messo in guardia dal rischio di scatenare guerre commerciali come quelle degli anni ’30. Nel 2009 Barack Obama  e ha risposto alla crisi dei subprime in modo molto cooperativo, attraverso il G20. Dieci anni dopo, con Donald Trump al potere, la tentazione protezionistica è tornata molto forte. Se Putin si è permesso il conflitto in Ucraina, è stato anche perché ha osservato una tensione molto forte tra Cina e Stati Uniti che gli ha fatto pensare di andare nella direzione della storia provocando l’Occidente».