Un'Italia che conquista l'indipendenza energetica: si libera dal giogo delle multinazionali, esplora e sfrutta al meglio le proprie risorse, stringe accordi privilegiati con le nazioni emergenti che hanno bisogno di tecnici e strutture per produrre gas e petrolio, dall'Egitto all'Iran, dalla Libia al Marocco. Una strategia che stava cambiando l'economia e la politica internazionale del nostro Paese, ma è stata fermata con una bomba: l'attentato che 60 anni fa, la sera del 27 ottobre 1962, ha ucciso il fondatore dell'Eni, Enrico Mattei, con altre due vittime, sull'aereo aziendale partito nel pomeriggio dalla Sicilia, esploso in volo mentre il pilota iniziava la manovra per atterrare a Milano Linate.
Una strage rimasta impunita. Che mai come oggi, nei mesi della crisi del gas scatenata dalla guerra russa in Ucraina, rivela la sua portata storica di svolta violenta, di passaggio traumatico per la democrazia in Italia. Dopo l'omicidio di Mattei, che fu negato per decenni, facendolo passare per incidente aereo, al vertice dell'Eni è asceso il suo ex direttore generale, Eugenio Cefis. Che in pochi mesi ha rovesciato la politica energetica dell'azienda nazionale. Ha ridotto gli acquisti e limitato gli accordi societari con le nazioni emergenti. E ha ripristinato e aumentato la dipendenza italiana da multinazionali anglo-americane del calibro di Esso e Shell. Dopo aver normalizzato l'Eni, Cefis ha poi scalato segretamente la Montedison, con fondi dell'azienda statale, diventando negli anni Settanta il numero uno del primo gruppo chimico privato, che era stato il suo principale concorrente. E che già allora, come l'Eni, distribuiva fiumi di tangenti ai partiti di governo.
A quegli anni cruciali, che hanno inciso la matrice della struttura produttiva italiana, è dedicato un libro-inchiesta, «L’Italia nel petrolio. Mattei, Cefis, Pasolini e il sogno infranto dell’indipendenza energetica», frutto di anni di ricerche di Giuseppe Oddo, giornalista economico che scrive anche per L'Espresso, e Riccardo Antoniani, professore di letteratura italiana a Parigi. Il saggio viene pubblicato da Feltrinelli nei giorni dell'anniversario della morte di Mattei e nel centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, che fu ucciso nel novembre 1975 mentre stava lavorando a un romanzo clamoroso su Cefis, intitolato Petrolio, rimasto incompiuto.
La prima parte del volume, quella economica firmata da Oddo, è la cronistoria di una sorta di golpe applicato all'industria: si parte dall'Eni di Mattei e si arriva alla Montedison di Cefis. Grazie un imponente documentazione recuperata negli archivi storici e a molte carte e testimonianze inedite, il saggio dimostra che Mattei, come rivendicò egli stesso in discorsi pubblici, aveva rivoluzionato il mercato mondiale dell'energia, stipulando accordi alla pari con i Paesi emergenti.
La copertina del libro-inchiesta sull'Eni di Mattei, la Montedison di Cefis e le fonti del romanzo "Petrolio" di Pasolini, rimasto incompiuto dopo l'omicidio dello scrittore e regista
Nelle ex colonie francesi e inglesi che conquistavano l'indipendenza, l'Eni entrava in società con le aziende petrolifere nazionali, che per la prima volta potevano sfruttare e rivendere il proprio gas e petrolio, insieme agli italiani. La rottura del monopolio delle multinazionali, unita ai primi accordi tra l'Eni e l'Unione sovietica per le importazioni di greggio, provocò reazioni allarmatissime nel blocco occidentale. Nel saggio c'è una lettera inedita di Raffaele Mattioli a Nelson Rockefeller: il banchiere italiano chiedeva al miliardario statunitense, già nel 1957, di favorire un incontro pacificatorio tra Mattei e i capi dei colossi petroliferi americani. Ma ci sono anche verbali della Nato, del Dipartimento di Stato e delle multinazionali più ostili a Mattei, che fu contrastato anche da politici e soprattutto da aziende francesi e inglesi. Il fondatore dell'Eni fu accusato di fare da emissario commerciale dei comunisti sovietici in Europa e di sostenere il processo di decolonizzazione in Paesi come l'Algeria, mettendo in discussione il vecchio ordine petrolifero mondiale, fondato su un accordo monopolistico di “cartello” tra le maggiori compagnie anglo-americane, le cosiddette “sette sorelle”.
Nei suoi ultimi mesi di vita, Mattei stava lavorando al maxi-progetto Eurafrigas: un accordo dell'Eni con Algeria e Francia, per estrarre gas nel Sahara e trasportarlo con un colossale metanodotto da Gibilterra alla Spagna fino in Italia e Belgio. Le carte documentano che, dopo la sua morte, Cefis fece fallire le trattative.
L'omicidio di Mattei viene ricostruito dal magistrato Vincenzo Calia: furono le sue indagini a dimostrare che l'aereo Morane-Saulnier 760 fu fatto esplodere in volo con una carica di esplosivo nascosta nel vano anteriore del velivolo e collegata al carrello di atterraggio. Una bomba ad effetto limitato, per simulare un incidente. L'ex procuratore di Pavia, nell'intervista, rivela un dato finora trascurato: l’avvocato Vito Guarrasi, eminenza grigia della Dc siciliana, ha testimoniato sotto giuramento al processo Andreotti, nel 1998, che aveva incontrato Cefis a Palermo il giorno prima della morte di Mattei. Finora si ignorava che nei due giorni in cui veniva preparato l'attentato contro il fondatore dell'Eni, il suo successore potesse essere in Sicilia. Che Mattei sia stato ucciso, ormai lo conferma anche la sentenza sul sequestro e omicidio del giornalista Mauro De Mauro, che stava ricostruendo per il regista Francesco Rosi il suo fatale viaggio in Sicilia. E che prima di scomparire, nel settembre 1970, parlò di uno scoop, che non riuscì a pubblicare.
Tutta questa catena di delitti è rimasta senza colpevoli. Anche grazie a continui depistaggi. E alla sistematica distruzione di prove. Come i resti dell’aereo di Mattei, fatti fondere da Cefis dopo la prima archiviazione del caso come incidente. L'indagine dell'ex procuratore Calia, condotta molti anni dopo, non è riuscita a identificare gli autori dell'attentato. E lo stesso magistrato chiarisce che «non sono emersi indizi a carico di Cefis», che è morto nel 2004 in Svizzera, dopo aver rilasciato l'unica intervista della sua vita, proprio per negare qualsiasi responsabilità nella morte del fondatore dell'Eni.
Pasolini, nelle bozze di Petrolio, denuncia che Mattei fu assassinato. Lo scrittore si spinge ad accusare Aldo Troya, il personaggio ispirato a Cefis, di essere il mandante e il beneficiario dell'attentato. Il testo di Pasolini viene analizzato nella seconda parte del saggio, curata dal professor Antoniani, che ne identifica le fonti. Tra quelle scritte spiccano interi paragrafi di un pamphlet, «Questo è Cefis», che la Montedison fece sparire dal mercato: ne risulta autore, sotto pseudonimo, un giornalista lombardo con un passato all'Eni, Luigi Castoldi, reclutato dal politico Gaetano Verzotto, che fu tra gli organizzatori del viaggio di Mattei in Sicilia. Pasolini lavorava su Mattei e Cefis fin dal 1972. E per la sua inchiesta ha incontrato molte persone: manager come Mario Reali, ex Montedison passato all'Eni, e politici come Giulio Andreotti, che aveva sempre negato di aver visto lo scrittore, ma è smentito da un suo stesso appunto. Pasolini collega Cefis anche alla strategia della tensione, facendone una sorta di precursore dell'ancora sconosciuta loggia P2.
Cefis, riservatissimo, ha parlato di soldi ai politici solo nel 1993, al culmine di Mani Pulite, in un interrogatorio pubblicato integralmente da L'Espresso. Davanti ai magistrati, l'ex presidente ammette che l'Eni finanziava i partiti di governo, dalla Dc al Psi, e singoli politici. Ma minimizza il proprio ruolo: sostiene di aver ereditato «un sistema creato da Mattei»; e giura di non sapere i nomi dei beneficiari delle tangenti, dichiarando che era il banchiere Arcaini dell'Italcasse a gestire la distribuzione dei fondi neri. Sulla Montedison, non dice nulla. Anche se proprio quel colosso chimico, nell'era successiva Gardini-Ferruzzi, è stato al centro del processo Enimont, che fece emergere la cosiddetta «madre di tutte le tangenti».
Nel saggio c'è un paragrafo, intitolato con ironia «le nonne di tutte le tangenti», con un verbale del sindacato azionario che controllava la Montedison ai tempi di Cefis. È l'unico con la dicitura «riservatissimo» in caratteri rossi. Alla riunione partecipa il gotha del capitalismo italiano: Agnelli, Pirelli, Cuccia e altri, insieme a Cefis. Gli azionisti pubblici e privati votano per limitare le «erogazioni a fini sovventori»: fondi neri della Montedison, in precedenza distribuiti senza limiti dall’allora presidente Giorgio Valerio. Quindi basta soldi ai politici? Ma no: dall'anno successivo, si legge nel verbale, il capo della Montedison dovrà farsi autorizzare le «erogazioni» e rispettare «un budget massimo».
A Milano, nell'interrogatorio sulle tangenti anonime, Cefis si era descritto come un manager aziendalista che «disprezzava» la classe politica. Nel libro-inchiesta vengono però pubblicate carte che comprovano un rapporto strettissimo con diversi capicorrente della Dc. In particolare i diari di Ettore Bernabei, che fu consigliere politico di Amintore Fanfani oltre che direttore generale della Rai e presidente dell'Italstat del gruppo Iri, documentano che Cefis era alla costante ricerca di finanziamenti statali e coperture politiche. Pressioni e manovre culminate, dopo la sconfitta di Fanfani al referendum sul divorzio, nel tentativo fallito di ottenere l'appoggio dell'ex nemico Andreotti, che però aveva già altri gruppi chimici da favorire, come la Sir di Nino Rovelli.
Una parabola economica che si riassume in un dato finale: nel 1977, quando Cefis ha lasciato l'Italia e si è ritirato in Svizzera («per paura», secondo una laconica nota dei servizi segreti), la sua Montedison era ridotta «in stato prefallimentare», come documenta il saggio, con «un indebitamento finanziario pari a sedici volte il capitale netto».
Il libro è ricchissimo di documenti. Un carteggio riservato, ritrovato nell'archivio storico dell'Eni, offusca anche il mito di Indro Montanelli, il più importante giornalista italiano, che firmò due famose sequenze di articoli, la prima contro Mattei, la seconda a favore di Cefis. Nel 2001 Montanelli smentì di aver mai ottenuto finanziamenti da Cefis, quando lasciò il Corriere, nel 1974 (accusando l’allora direttore Piero Ottone di appoggiare la sinistra), per fondare il Giornale nuovo, poi acquistato dalla famiglia Berlusconi. «Non avevamo un finanziatore», ha scritto Montanelli, «né una banca, né un'azienda pubblicitaria, finché non ce ne venne in soccorso una svizzera, la Spi, che poi fu comprata dalla Montedison, la quale si affrettò a rescindere il contratto».
In realtà la Spi era fin dall'origine una controllata svizzera del gruppo di Cefis. E finanziò la nascita del Giornale anticipando due anni di «minimo garantito»: incassi della pubblicità futura, coperti proprio dalla Montedison. Il libro ora rivela anche come nacque quel rapporto tra il giornalista e il manager petrolchimico. A documentarlo è una lettera scritta e firmata dallo stesso Montanelli, che chiede un incontro privato a Cefis, per preparare la sua seconda serie di articoli sull'Eni. Il giornalista ricorda i suoi precedenti attacchi a Mattei. E prende due «impegni» con Cefis: «primo: a non sollecitare altre fonti d’informazione se lei mi apre le sue»; «secondo: a sottoporre alla sua approvazione e revisione i miei articoli prima che siano pubblicati». I tre servizi per il Corriere escono nell'aprile 1965, firmati da Montanelli, che non dichiara la sua unica fonte e non attribuisce neppure un virgolettato a Cefis.