Pubblicità
Politica
settembre, 2022

Matteo Salvini sconfitto avverte gli alleati: o Lombardia o crisi

Il Capitano attacca a tutto campo dopo il flop elettorale. E sul Nord mette le mani avanti: squadra che vince non si tocca. Per tenere a bada le ambizioni di Letizia Moratti

In attacco come il Milan, Matteo Salvini is on fire quanto Stefano Pioli, l’allenatore della sua squadra del cuore. Altro che sconfitta. La mattina del dopo elezioni il Capitano attacca a fondo e i suoi bersagli polemici non sono gli avversari travolti dallo tsunami del 25 settembre ma gli alleati.

 

Nella sua recitazione post-voto dal quartier generale di via Bellerio iniziata con circa mezz’ora di ritardo dopo le 11.30, prima di Calenda e Letta, Salvini parte con un discorso abbastanza strano sui comuni. Dove c’è il sindaco della Lega, dice il Capitano, tutto funziona benissimo e la Lega prende il 30% mentre nel comune accanto, dove governa il centrodestra ma la Lega non ha il sindaco, la Lega prende il 15%. A sottintendere “e il comune non funziona” ci vuole malignità ma la malignità ha andreottianamente ragione perché Salvini non molla il filo della polemica interna.

Dice che Meloni ha vinto perché è stata all’opposizione e la Lega no, che lui non ha avuto voce in capitolo nel designare i ministri di Mario Draghi, a differenza dell’ala governista del partito.

 

Il successivo riferimento è quello più incisivo perché investe le prossime regionali. Nell’ordine cita il Lazio, dove la Lega non può vincere né presenterà candidati, poi il Molise, idem come sopra. Per terza e come per caso arriva la Lombardia, dove il centrodestra ha la maggioranza assoluta, e il Friuli Venezia-Giulia, dove governa il leghista Massimiliano Fedriga.

 

Sulla Lombardia la frase di Salvini non offre margini a interpretazioni: squadra che vince non si tocca. Ma è proprio la Lombardia il maggiore problema da sistemare per evitare che gli equilibri del centrodestra si alterino rapidamente.

 

Nel 2023 si vota per la regione più popolosa e più ricca d’Italia. Il centrodestra vincerebbe con chiunque e contro chiunque, tanto che il popolarissimo ma milanesissimo Beppe Sala non ha mai ipotizzato di candidarsi, come ha fatto il bergamasco Giorgio Gori, sconfitto all’ultimo giro da Attilio Fontana.

 

La Lombardia a guida leghista è un fatto abbastanza recente. Fino al 2018 c’è stato Roberto Maroni, poi Fontana. Prima di loro, c’è stato il lungo regno (tredici anni) del Celeste Roberto Formigoni, un democristiano passato a Forza Italia con un controllo ferreo sul più importante centro di spesa regionale, la sanità con miliardi di euro all’anno di investimenti fra budget ordinario e fondi Pnrr.

 

Non toccare la squadra che vince significa ripresentare Fontana e ribadire la guida leghista. Problema: come si giustifica con gli alleati il controllo di quasi tutto il Nord quando si prende meno del 9%? Come si spiega a Giorgia Meloni che un partito in crisi si tiene, come accade adesso, Lombardia, Veneto e Friuli, con il Piemonte forzista, e che il primo partito d’Italia non becca palla nelle regioni più ricche del settentrione?

 

La premier in pectore Meloni è favorevole a insediare alla guida di palazzo Lombardia l’ex ministro azzurro Letizia Brichetto Moratti, con l’ovvio sostegno di Silvio Berlusconi che ha nominato lady Moratti ministro dell’Istruzione suo governo fra il 2001 e il 2006. Con la nomina in regione all’inizio del 2021 la vedova di Gianmarco Moratti si è imposta come vice molto operativo di Fontana togliendo l’assessorato a un altro forzista, Giulio Gallera. I suoi rapporti con il presidente di giunta non sono stati troppo sereni ancor meno lo sono oggi che l’avvocato leghista varesino ha la certezza di averla come concorrente diretta sulla strada della riconferma.

 

Brichetto Moratti, capace di attirare anche i voti del Terzo Polo che comunque non servirebbero, ha detto a più riprese e con grande chiarezza di non essere interessata a un ministero romano.

 

Molto più interessato a un posto nel governo centrale è proprio Salvini. Magari non un ritorno al Viminale, al quale nemmeno lui crede, ma un dicastero di prestigio da usare come moneta di scambio con un nome gradito a Fdi per palazzo Lombardia.

 

In caso contrario, il Capitano potrebbe seriamente pensare alla rottura. Lo ha già fatto nel 2019 quando l’ubriacatura delle Europee con il 34,3% dei voti e i suoi colonnelli lo convinsero incautamente di cercare elezioni anticipate. Oggi il quadro è del tutto diverso. Ma l’opposizione fa bene ai consensi, Meloni docet. E restano sempre le regioni del Nord da governare.

L'edicola

La pace al ribasso può segnare la fine dell'Europa

Esclusa dai negoziati, per contare deve essere davvero un’Unione di Stati con una sola voce

Pubblicità