Questi milanesi così efficienti. Mica come i romani che parlano di nuovo stadio da quasi quindici anni e non hanno ancora combinato nulla. Nella città del fare, si decide e si fa.
Invece anche in questa Milano così poco romana è partito lo scaricabarile a fronte di una demolizione di San Siro sempre più impopolare e sempre più costosa sia in termini di impatto ambientale sia per i costi impazziti delle materie prime. Il preventivo è schizzato da 700 milioni di euro per l’impianto più 500 milioni per la riqualificazione dell’area a tre miliardi complessivi, due dei quali a carico di Inter e Milan. È un’enormità per due club esterovestiti in Cina e Usa rispettivamente che non nuotano affatto nell’oro.
Giovedì 19 gennaio la giunta di Giuseppe Sala, che era chiamata a decidere, ha deciso di prendere atto del dibattito pubblico durato sessanta giorni. Ha deciso di non decidere. Anzi, di decidere salvo decisioni di autorità superiori. E qui l’elenco degli ultimi giorni è lungo. Si sono iscritti alla discussione Vittorio Sgarbi, sottosegretario alla cultura, il suo ministro Gennaro Sangiuliano, in contrasto con lui, e il presidente del Senato Ignazio La Russa, fedelissimo dell’Inter. Per bilanciare il peso del tifo, è entrato in campo il milanista Matteo Salvini, amico di ultras di fama preclara presso le forze di polizia. Ognuno vuole una cosa diversa. Il ministro delle infrastrutture punta a sbaraccare la Scala del calcio e pretende dal sindaco il semaforo verde a un progetto che interessa molto anche i veri padroni di Milano, i signori dell’immobiliare. La Russa, seconda autorità dello Stato e siculo-meneghino a tutto tondo, chiede addirittura due stadi, uno ristrutturato e uno nuovo, a pochi metri l’uno dall’altro. Sgarbi cavalca un possibile vincolo, oggi relazionale e dal 2024 monumentale, che mantenga lo status quo ante, come vogliono alcuni vip del derby come l’ex presidente nerazzurro Massimo Moratti, la guida carismatica dell’azionariato popolare interista Carlo Cottarelli, editorialista dell’Espresso, e infine il proprietario del Monza, già trionfatore in rossonero, Silvio Berlusconi.
L’affare San Siro ha provocato spaccature trasversali nell’amministrazione cittadina. La maggioranza di centrosinistra è stata contestata da nove consiglieri. L’opposizione si è balcanizzata tra i forzisti, favorevoli alla demolizione contro il loro ondivago leader, e il blocco conservazionista tra Fdi e Lega, anch’essa in contrasto con le direttive del segretario nazionale.
Infine, a fare il vaso di coccio fra i vasi di ferro, c’è la Soprintendenza che ha appena visto l’avvicendamento fra Antonella Ranaldi, approdata Firenze, ed Emanuela Carpani, architetta laureata al Politecnico di Milano in arrivo da Venezia, dove ha trascorso gli ultimi sette anni.
In una contesa che si gioca sempre più sui tecnicismi, in teoria l’unico decisore è il Comune. Ma i beni culturali, nella persona di Sgarbi, possono avere un ruolo molto gradito a chi vuole bloccare il piano di fattibilità della nuova Cattedrale, firmato dallo studio Populous. Il Mibact, ammesso che ministro e sottosegretario si mettano d’accordo, può suggerire alla Soprintendenza di porre il vincolo.
Qualcuno nei corridoi di palazzo Marino ricorda il precedente. Nel febbraio del 2019 il ministro del governo gialloverde Alberto Bonisoli vincolò il Giardino dei Giusti a Monte Stella, nel quartiere QT8, contro la delibera di giunta che autorizzava alcune opere edili con l’ok di Ranaldi. La Soprintendente aveva dovuto eseguire le direttive del ministero.
Quattro anni fa le polemiche, e le accuse del Pd alle ingerenze del ministro grillino, non avevano superato le pagine delle cronache locali. Ma San Siro è lo stadio italiano per eccellenza nella contabilità dei trofei italiani e internazionali. San Siro, e la parola non è sprecata, è un’icona. Paradossalmente, i meno sensibili all’aspetto iconico sembrano proprio Inter e Milan. I due club, reduci dalla visita alla nuova Mecca del football Riad per la Supercoppa italiana, minacciano di trasferirsi nel paradiso artificiale di Sesto San Giovanni. L’ex area Falck passata dai comunisti trinariciuti ai leghisti di rito salviniano, non sarà lontana come l’Arabia Saudita ma non ci sono grandi club in Europa che giocano in un altro comune, peraltro in una zona che si trova a breve distanza dal Brianteo, l’impianto del Monza berlusconiano.
Da quando la partita di San Siro stagna a centrocampo, le regine del calcio milanese hanno fatto la faccia dura. È ancora in ballo il pagamento di una cartella esattoriale da 10 milioni di euro per l’affitto annuale dello stadio nel periodo pandemico. Anche l’aspetto canone è stato valutato dagli oppositori del nuovo stadio. Inter e Milan detraggono dai 10 milioni le spese di manutenzione, non troppo controllate dal locatore. Gli investimenti sono stati limitati all’area spogliatoi e soprattutto alla zona del pubblico vip, dove sono spuntati box per le imprese e un ristorante che corre lungo il lato lungo del terreno al livello del campo di gioco. Curve, terzo anello e la stessa tribuna arancione, l’ex zona distinti pre-mondiale Italia 1990, sono molto trascurati. In ogni caso, i 6 milioni circa che il Comune incassa ogni anno e destina all’attività sportiva di base, con il nuovo impianto scenderebbero a 2 milioni di euro per i primi vent’anni della concessione.
Meglio poco che niente, sostengono i club che prospettano un San Siro abbandonato dal calcio e in pura perdita per le casse di un Comune che, incredibilmente data la ricchezza della città, sono in sofferenza.
La ciliegina sulla torta è la minaccia di causa per danni. La “perdita di tempo” addotta dai club suona risibile ma la situazione ricorda quella di Roma. Dopo che Tor di Valle ha perso la qualifica di area a interesse pubblico a favore di Pietralata, il magnate ceco Radovan Vitek, che ha rilevato l’ex ippodromo dalla crisi del gruppo Parnasi, ha chiesto 291 milioni di risarcimento. Su Pietralata, per una volta, le pratiche sembrano andare spedite. Nel derby Roma-Milano si prepara un clamoroso sorpasso.