Nel 2022 le grandi aziende tecnologiche hanno mandato a casa oltre 150mila persone dopo gli anni di crescita della pandemia. «Hanno assunto con leggerezza. E con la stessa leggerezza licenziano»

Himanshu Verma, un ingegnere del software indiano, si è trasferito in Canada per lavorare a Meta all’inizio di novembre. Due giorni dopo è diventato uno degli undicimila dipendenti licenziati da Mark Zuckerberg. Tra loro c’era anche Xiaohui Huang, una ragazza cinese che ha raccontato su LinkedIn di avere quattro mesi di tempo per trovare un lavoro e non perdere il visto. E poi Aaron Doran, irlandese con una figlia di pochi mesi, che ha rivissuto il licenziamento del padre all’epoca del crac di Lehman Brothers. Tre storie fra quelle delle 154.186 persone (calcolo del sito specializzato layoffs.fyi) lasciate a casa nel 2022 da un migliaio di aziende del settore tecnologico.

 

Pochi giorni prima dei tagli di Zuckerberg, Elon Musk si era presentato a Twitter dimezzando il personale. Cisco ha previsto più di quattromila licenziamenti, Shopify, Snap e Stripe un migliaio. I più resistenti, come Apple, si sono limitati a congelare le assunzioni. Il 2023 è cominciato allo stesso modo: Amazon ha annunciato 18 mila esuberi, Alphabet/Google 12 mila, Microsoft diecimila, Salesforce quasi ottomila, Spotify circa 600.

 

L’ondata ha riguardato soprattutto gli Usa, ma non ha risparmiato l’Europa e l’Italia. Meta ha scelto di tagliare 22 dei circa 130 dipendenti di Milano. Amazon ha rinunciato a un nuovo polo della logistica che avrebbe impiegato 100 persone a Cuneo. Un disimpegno che fa preoccupare gli altri 3.500 dipendenti del Piemonte e i 17 mila di tutto il Paese. A luglio l’app di consegne tedesca Gorillas ha deciso di uscire dal mercato italiano e di lasciare a casa 540 persone. «Avevo un contratto a tempo determinato, come altri 480 lavoratori, ma rientravo nella metà che l’azienda si era impegnata ad assumere a tempo indeterminato», racconta Alex Deiana, 30 anni, ex operatore di magazzino a Roma: «L’amministratore delegato ha organizzato una videoconferenza con tutti i dipendenti. Ci ha fatto sapere che la società aveva avviato la procedura di licenziamento collettivo e che i contratti in scadenza non sarebbero stati rinnovati». Prima di andarsene, i dipendenti hanno vissuto settimane di ritmi folli. «L’azienda ha applicato il 70 per cento di sconto sulle merci per liberare i magazzini. Gli ordini erano tanti ed enormi, le persone sempre meno. Alla fine c’erano ragazzi che pedalavano per Roma con 25 chili sulla schiena». Secondo la Cisl, che si è occupata di molti ricollocamenti, casi come questo dimostrano «l’urgenza di affrontare in modo organico le tematiche che riguardano il lavoro su piattaforma digitale».

 

Di sicuro le società tecnologiche devono affrontare problemi comuni a tutta l’economia: inflazione, incertezza geopolitica, caro energia, forniture difficili. Anche aziende di altri settori hanno tagliato. Ma questo è un caso speciale. Se l’S&P 500, il più importante indice di Wall Street, è sceso del 19 per cento nel 2022, le cosiddette big tech hanno fatto peggio della media: Apple e Microsoft hanno perso poco meno del 30 per cento, Alphabet il 40, Amazon quasi il 50, Meta addirittura il 64.

 

In parte i licenziamenti compensano le assunzioni dei due anni più intensi della pandemia. Quando le persone si sono spostate in massa online, le aziende tecnologiche hanno visto lievitare i ricavi e hanno ampliato il personale. Qualcuno ha esagerato. Lo ha ammesso anche Zuckerberg che ha assunto circa la metà dei suoi dipendenti tra il 2020 e il 2022. Secondo Andrea Rangone, cofondatore degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano, «non siamo di fronte alla fine di un’era. Molte aziende continuano a realizzare utili enormi. Sono in difficoltà quelle che non hanno ancora raggiunto un equilibrio economico-finanziario e devono consumare soldi per andare avanti. Ora che il costo del denaro è salito, gli investitori le penalizzano».

 

Nella Silicon Valley, i più ottimisti pensano addirittura che l’ondata di tagli darà origine a una nuova generazione di startup. L’agenzia Reuters ha raccontato la storia di Nic Szerman, un ragazzo di 24 anni che, dopo aver perso il lavoro a Meta, ha iniziato a cercare finanziamenti per la sua società di pagamenti basati sulla blockchain. «Ho incassato quattro mensilità e ora ho il tempo di concentrarmi sul mio progetto», ha raccontato. Il fondo Day One Ventures ha lanciato un’iniziativa per finanziare startup dallo slogan «Finanziati, non licenziati». Più di mille aziende si sono candidate per uno dei 20 assegni da 100 mila dollari. Molte grandi imprese tecnologiche, in effetti, sono nate in periodi di crisi. Microsoft è stata fondata nel 1975, in coda alla stagnazione. LinkedIn nel 2002, dopo lo scoppio della bolla delle dot-com. Airbnb nel 2008, pochi giorni prima dell’inizio ufficiale della Grande Recessione. «Ci sono molti talenti a disposizione. Ma chi esce da grandi aziende percepisce stipendi e benefit che poche aziende giovani si possono permettere. In più la pandemia ha portato molti a riconsiderare l’equilibrio tra vita privata e professionale. Non è detto che tale sensibilità sia considerata nella Silicon Valley», dice Nicoletta Corrocher, docente del dipartimento di Management e Tecnologia alla Bocconi.

 

«Le aziende hanno assunto con leggerezza. E con la stessa leggerezza licenziano. Non per errore di pianificazione, ma per scarsa considerazione del lavoro», dice Ivana Pais, professoressa di Sociologia economica alla Cattolica. Una visione che si riflette anche nelle modalità: «All’epoca delle dot-com si seppe che un dirigente di un’azienda italiana convocava i lavoratori e li licenziava con la formula del Grande Fratello: “Sei stato nominato”. Fu uno scandalo. Oggi la superficialità è la stessa, ma non ci si indigna più».