Medio Oriente in fiamme
Le colpe di Bibi Netanyahu, premier in fuga dalle sue responsabilità
I sondaggi sulla sua popolarità sono in caduta libera, nel Likud - il suo partito - molti lo considerano "finito", l'opinione pubblica ne invoca da giorni il mea culpa per l'attacco di Hamas. Ma lui prende tempo
Aggrappato alla sua poltrona, come un naufrago al relitto galleggiante, Bibi Netanyahu, chiamato in causa come capo del governo per la disfatta degli apparati di sicurezza, esercito e servizi segreti, che ha permesso ai miliziani di Hamas di compiere il massacro del 7 Ottobre scorso, ha cercato di schivare le proprie responsabilità tacendo per giorni e giorni, poi, davanti all'indignazione montante, ha ammesso che i responsabili del fallimento dovranno renderne conto: «Lo scandalo sarà indagato a fondo - ha detto -. Tutti dovranno dare risposte. Me compreso». Ma questo, ha precisato, avverrà dopo la fine della guerra.
E così, davanti ai sondaggi sulla sua popolarità in caduta libera, ai mormorii della stessa base del suo partito, il Likud, che lo considera “finito”, e all''opinione pubblica che ne invocava da giorni, a stragrande maggioranza (l'83% secondo un sondaggio del quotidiano Maariv) il mea culpa, Netanyahu ha risposto prendendo tempo. Evidentemente punta sul potere salvifico della vittoria, sulla quale non ha dubbi. Nel frattempo, però, prepara la sua difesa facendo sapere, attraverso i portaborse, che non ha niente di cui pentirsi. E semmai è stato lui ad esser stato tenuto all'oscuro.
In base alla ricostruzione fatta circolare dagli uomini di Netanyahu, confermata nelle linee generali dal direttore del Consiglio di Sicurezza Nazionale, Tzahi Hanegbi, altro fedelissimo di Bibi, nella serata del 6 ottobre, precedente al massacro, sarebbero arrivata alcune segnalazioni d'intelligence dalla Striscia su sospetti di miliziani. Immediatamente, il capo del Servizio di Sicurezza Generale (Shin Bet), Ronen Bar, ha informato il Capo di Stato Maggiore dell'Esercito, Herzl “Herzi” Halevi, e tra di due vi sarebbe stata un'intensa consultazione, culminata, però, nella scelta davvero stupefacente di rimandare ogni decisione all'indomani.
Secondo questa ricostruzione, Netanyahu, sarebbe stato avvertito soltanto alle 6,29 del mattino di sabato, 7 ottobre, quando i macellai di Hamas avevano già sfondato la più sofisticata recinzione tecnologica e militare che un esercito abbia mai steso intorno ad una “entità ostile”, un nemico potenziale, come la Striscia di Gaza venne formalmente dichiarata da Israele dopo la conquista del potere, nel 2007, da parte di Hamas, acronimo di Harakat, Maqawama al Islamiyya, ovvero Movimento Islamico di Resistenza.
Domanda: nonostante l'intelligence ricevuta sia stata evidentemente interpretata come non immediatamente preoccupante, come mai non è stato dato almeno un preallarme alla Divisione Gaza, e da qui agli avamposti militari che vigilano sul recinto, i cui soldati sono stati invece colti nel sonno e uccisi quando, a quanto pare, erano ancora addormentati nelle brande?
Quella indicazione temporale, “6,29”, destinata a passare alla storia del conflitto, è l'appiglio cui si è aggrappato Netanyahu per evitare di ammettere, come invece hanno fatto in tanti al vertice degli apparati di sicurezza e della politica, di aver dato una errata valutazione del pericolo rappresentato da Hamas, così contribuendo a creare quel “fattore sorpresa” di cui si sono avvalsi i terroristi entrati in azione il 7 ottobre.
Ma, si chiedono a questo punto i critici del premier, basta il fatto di non essere stato informato tempestivamente di una segnalazione d'intelligence, immaginando che di tali segnalazioni ne arrivino quotidianamente e in quantità, per auto-esonerarsi da una doverosa assunzione di responsabilità? E come fa Bibi, insistono alcuni commentatori, ad ignorare quello che lui stesso ha detto in passato a proposito delle responsabilità che competono al premier?
Nella sua autobiografia “Bibi: My story”, Netanyahu appare su questo proposito tranchant: “Per come la vedo io, il primo responsabile della sicurezza del paese non è il ministro della Difesa, ma il Primo Ministro. In un paese come Israele non puoi nominare un Primo Ministro che non abbia una certa capacità di delineare una concezione politico-militare, perché allora i sistemi di sicurezza (subordinati al premier) sono sotto controllo, piuttosto che essere lui sotto controllo dei sistemi”.
In questa frase c'è tutto Netanyahu, la sua presunzione, la sua dominante concezione di se, la sua sconfinata autostima. Per questo, secondo i suoi critici, Netanyahu non può oggi sperare di cavarsela rimanendo al suo posto, perché nei molti anni che è stato a capo del governo, in pratica dal 2009, salvo la parentesi di un anno nel 2021-2022 (governo Bennet-Lapid), egli ha contribuito in maniera determinante a costruire una “concezione” , una teoria in base alla quale Israele avrebbe fatto bene a rafforzare il ruolo di Hamas nella Striscia di Gaza ed indebolire l'Autorità Palestinese oramai, relegata nella West Bank dall'altro e considerata corrotta e inefficiente. Da qui la scelta non soltanto di non affondare il colpo tutte le volte in cui Israele ha deciso di rispondere militarmente alle provocazioni del Movimento integralista (ben 5 guerre dal 2008 ad oggi con migliaia di morti) ma anche la scelta di lasciare che i finanziamenti del Qatar (si parla di un miliardo di dollari) arrivassero tranquillamente nella Striscia. Finanziamenti serviti ad Hamas non soltanto per mantenere un livello di vita decente in una Gaza sotto assedio, segnata da miseria e disoccupazione, ma anche per allargare il proprio arsenale militare. Ma la “concezione” di Netanyahu ha prevalso su ogni altra considerazione, perché era ispirata non soltanto dal principio del “divide et impera” con cui i governanti israeliani hanno gestito i rapporti con i due principali movimenti politici palestinesi, l'integralista Hamas e la laica Al Fatah, Gaza e Ramallah, ma anche dalla convinzione che mai e poi mai Israele avrebbe dovuto permettere la creazione di una Stato Palestinese in Cisgiordania e Gaza.
Lo ha detto lui stesso nel marzo del 2019 al gruppo parlamentare del Likud in una discussione proprio sul trasferimento di danaro dal Qatar a Gaza, un afflusso che Israele avrebbe potuto bloccare in qualsiasi momento: “Chiunque si oppone allo Stato Palestinese deve supportare il trasferimento di fondi a Gaza, perché mantenendo la separazione tra l'Autorità Palestinese nella West Bank e Hamas a Gaza, impedirà l'istituzione dello Stato Palestinese”. E così, convinti che Hamas, ubriaca di dollari e non più assetata di sangue, Netanyahu e i suoi seguaci, come ha scritto un giornalista di Haaretz “si sono addormentati al volante”. Non è un caso che poche giorni prima di quel tragico 7 ottobre, proprio Hanegbi, davanti alle telecamere abbia detto: “Hamas non attaccherà più Israele almeno per i prossimi 15 anni”. Poi, però, almeno si è scusato