Il caso
L'ultimo colpo di genio di Francesco Lollobrigida: il ministro inventa un bollino che già esiste
La certificazione di qualità per i locali italiani all’estero c'è da oltre un decennio e la rilascia Unioncamere. Ma il governo ne vuole introdurre un’altra a pagamento. Svista, dimenticanza? No, caccia al consenso
La prima dichiarazione dei redditi della senatrice Antonella Rebuzzi era in russo e presentava un imponibile di 230 mila rubli. E non poteva che essere così. Eletta nel 2006 all’estero grazie al debutto di quella singolare modifica costituzionale voluta dall’ex missino Mirko Tremaglia che nell’occasione fece vincere le elezioni di strettissima misura al centrosinistra, aveva un ristorante italiano a Mosca. Un ristorante ben noto nella comunità tricolore e ben frequentato. Ci si incontrava Al Bano, ma anche Silvio Berlusconi. E la cucina del suo “Da Cicco” doveva essere apprezzata dal Cavaliere al punto da farla ritrovare candidata nelle liste di Forza Italia, circoscrizione estero.
Per magia della nuova legge elettorale che aveva smantellato il Mattarellum consegnando il potere assoluto di nominare gli eletti ai capi dei partiti, fu così che Antonella Rebuzzi ebbe nella seconda legislatura più breve della Repubblica un seggio al Senato. Dove fece esattamente ciò per cui era stata eletta: firmare una proposta di legge per istituire il marchio di qualità dei ristoranti italiani all’estero. Ma l’iter della legge, presentata il 22 febbraio 2007, fu avviato soltanto il 21 gennaio 2008, settantadue ore prima delle dimissioni del secondo governo di Romano Prodi. Quando la legislatura era ormai evaporata.
Quindici anni più tardi, riecco la legge sul marchio di qualità dei ristoranti italiani. Fautore, il ministro della sovranità alimentare Francesco Lollobrigida. L’articolo 25 del disegno di legge sul «Made in Italy» prevede che i «ristoratori operanti all’estero» possano chiedere la certificazione di «ristorante italiano nel mondo». Il bollino però non è gratis. Viene rilasciato da «un ente certificatore accreditato presso l’organismo unico di accreditamento nazionale», ovviamente dopo aver pagato. Chi stabilisce il prezzo? Il solito concerto a più voci: un decreto di Lollobrigida e del suo collega degli Esteri Antonio Tajani, ma beninteso con il placet di Giancarlo Giorgetti (Economia), Adolfo Urso(Imprese), Orazio Schillaci (Salute) e Daniela Garnero Santanchè (Turismo). Il medesimo decreto dovrà poi stabilire il «disciplinare», ovvero gli ingredienti e i prodotti che dovranno essere utilizzati nella preparazione delle pietanze per ottenere la certificazione.
Proprio quello che ci voleva, direte. Peccato soltanto che il bollino di qualità per i ristoranti italiani all’estero esista già. Senza che ci sia stata la necessità di fare una legge approvata dal Parlamento. Ed esiste da ben 13 anni, come avrebbe potuto confermare anche Antonella Rebuzzi se non fosse prematuramente scomparsa nel 2018. Il suo ristorante a Mosca è stato infatti uno dei primi a ottenere il bollino con la Q maiuscola del marchio «Ospitalità italiana». Che ora espongono più di duemila ristoranti italiani nel mondo. L’iniziativa è pubblica, partorita da un ente pubblico: l’Unioncamere allora presieduta da Ferruccio Dardanello. Accadeva, per giunta, durante l’ultimo governo di Silvio Berlusconi, con una maggioranza politica identica a quella attualmente al potere. Nel quale, tanto per definire ancora meglio i confini di questo paradosso, c’era un viceministro dello Sviluppo economico, (ministero oggi rinominato Imprese e Made in Italy) che rispondeva al nome di Adolfo Urso. Non un omonimo: la stessa persona che oggi ha la responsabilità di quel ministero e ha messo la propria firma sotto il disegno di legge di cui sopra.
E sentite come Urso all’epoca commentò la cosa: «Questa iniziativa che serve a valorizzare il vero made in Italy nel mondo è lodevole e si inserisce in un piano più ampio di lotta alla pirateria che il ministero dello Sviluppo economico sta promuovendo. Sono convinto che la creazione di un marchio di qualità per i ristoranti italiani nel mondo è un’azione utile sia per i consumatori sia per i produttori». Non bastasse, pure il bollino delle Camere di commercio si ottiene solo rispettando un preciso disciplinare.
Intanto nel ristorante deve esserci personale che parli italiano e il menu va scritto anche nella nostra lingua, con almeno metà di piatti e ricette della tradizione italiana. La carta dei vini deve poi contenere almeno il 20 per cento di etichette italiane dop o igp ed è prescritto che nel locale si consumi tassativamente olio extravergine di oliva italiano. Inoltre è necessario per il cuoco un attestato che lo qualifichi come esperto per la preparazione di piatti tipici italiani. Ma soprattutto il ristoratore deve rendere noto l’elenco di tutti i prodotti enogastronomici impiegati. Rigorosamente italiani non taroccati.
La certificazione pubblica di qualità per i nostri ristoranti nel mondo dunque esiste già. Se ne occupano materialmente le Camere di commercio all’estero e la pratica è sostanzialmente gratuita. Detto questo, bisogna riconoscere che la politica italiana ci ha abituati a ben altre sorprese. Come quelle di futuri governanti che dicono una cosa all’opposizione e il suo contrario una volta entrati nella stanza dei bottoni. Ma una legge per istituire ex novo una cosa che già esiste da 13 anni non si era ancora vista. Siccome però non è credibile che tutti i ministri di oggi (e qualcuno come si è visto c’era anche all’epoca) siano stati colti da improvvisa amnesia, una ragione ci deve pur essere. Con ogni probabilità sempre la stessa: la propaganda e il consenso.
Fra sette mesi si vota per il rinnovo del Parlamento europeo, elezioni nelle quali la destra conta di stravolgere i rapporti di forza nel continente. E conquistare un bacino elettorale come quello sensibile al tema del cibo, che tra l’altro spesso è in sofferenza per certe trame dei concorrenti esteri capaci di fare breccia a Bruxelles, può non essere irrilevante. Così fin da subito, e sventolando la bandiera del sovranismo alimentare, il governo di Giorgia Meloni attraverso il cognato ministro Lollobrigida ha corteggiato la Coldiretti. Il primo atto sovranista, quello di spalleggiare la crociata della più potente organizzazione agricola contro la carne sintetica, vietandone la produzione in Italia.
La Coldiretti conta più di un milione e mezzo di aderenti e nella cosiddetta Prima Repubblica rappresentava il pilastro elettorale più solido della Democrazia Cristiana. Al tempo di Arcangelo Lobianco faceva eleggere una quarantina di parlamentari. Cercarono di stroncarla con il crac della Federconsorzi ma il peso politico, sia pure ridimensionato, è rimasto. E il cuore della Coldiretti ha sempre continuato a battere dallo stesso lato. Caso vuole che dal 2018 il presidente sia Ettore Prandini: imprenditore agricolo bresciano incidentalmente figlio di Giovanni Prandini, democristiano a trazione integrale che fu ministro dei Lavori pubblici nell’ultimo governo di Giulio Andreotti mentre scoppiava Tangentopoli.
E il corteggiamento di Fratelli d’Italia ha evidentemente dato i suoi frutti, come prova l’entusiasmo che alle manifestazioni della Coldiretti ha accolto Lollobrigida e Giorgia Meloni rivendicando «il boom di pasta patriottica» e l’offensiva contro la protervia di Bruxelles verso i prodotti italiani. Cementando sempre più un’alleanza ormai indissolubile, con l’organizzazione di Prandini che offre il microfono al ministro sovranista per criticare da New York lo stile alimentare statunitense. E il ministro, impegnato a intestarsi le battaglie internazionali dell’organizzazione di Prandini, che loda senza riserve «il disegno di legge che prevede l’istituzione di un ente per la certificazione di qualità a favore della ristorazione italiana all’estero». Vogliamo scommettere chi lo farà questo «ente»?