Nel bilancio dell'ultimo anno oltre un milione e mezzo di euro di crediti da recuperare dagli eletti che non hanno versato il dovuto all'organizzazione. Così sono partiti i decreti ingiuntivi

Difficile dimenticare 120 mila euro buttati dalla finestra, quando si devono contare anche gli spiccioli. Ma tant’è. La fondazione Eyu creata nel 2014 dal Partito democratico al tempo di Matteo Renzi è stata messa in liquidazione alla chetichella due anni fa. Ci ha pensato il presidente, ovvero l’ex tesoriere renziano e senatore di Italia viva Francesco Bonifazi, quando già l’inchiesta giudiziaria sui denari elargiti anche a Eyu dal costruttore Luca Parnasi, che l’ha coinvolto, era un pezzo avanti. E dei 120 mila euro messi lì dentro dal Pd non si è saputo più nulla. Inghiottiti da un buco nero. Assieme ai progetti mai realizzati. Eyu era una sigla che teneva insieme l’ex giornale della Margherita Europa, la tivù del partito Youdem e l’ex quotidiano dell’ex Pci l’Unità. Si chiamava così perché il piano era quello di «acquisire, anche attraverso società di capitali partecipate, i marchi Europa, Youdem e l’Unità indispensabili per lo sviluppo delle proprie attività». Questo era scritto nero su bianco, in un verbale del 19 novembre 2014 con cui veniva nominato presidente di Eyu Adrio Maria De Carolis, presidente e azionista della società di sondaggi Swg, con duemila euro al mese per il disturbo.

 

Quei propositi non hanno avuto seguito. Ma erano altri tempi e 120 mila euro non pesavano come oggi. Nel 2014 ancora arrivavano spiccioli dei rimborsi elettorali: 14 milioni, che facevano salire a 27 gli introiti complessivi del partito a Roma. Più del doppio rispetto a oggi, che le entrate stiracchiate del bilancio 2022 firmato dal tesoriere Michele Fina, senatore abruzzese adottivo di Luco dei Marsi, superano di poco 12 milioni. Allora non si badava nemmeno troppo alle spese. Il referendum costituzionale del dicembre 2016 perduto da Renzi ha rappresentato per il Pd un salasso da 13 milioni. Più i due sborsati dai gruppi parlamentari fa un totale di 15. E sul groppone ci sono ancora 1,3 milioni di debiti con le Poste, che portano a quasi 9 milioni l’indebitamento complessivo del partito a fine 2022.

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Poi i dipendenti. Ds e Margherita erano stati molto abili nel preservare ciascuno il proprio patrimonio evitando di trasferirlo al nuovo Partito democratico. I loro dipendenti, invece, li avevano ben volentieri scaricati al Pd che all’inizio non aveva neppure un euro di dote. Ed erano un esercito. Trecento almeno. Ne sono rimasti 114, compresa una quindicina di giornalisti, con contratti di solidarietà. Solo 83, però, li stipendia il partito: gli altri sono in aspettativa o distaccati altrove.

 

Ridurre quel numero non è stato gratis. Sei anni di ammortizzatori sociali, fra cassa integrazione e il resto, ci sono costati 15 milioni. E ce ne sono ancora troppi. Il bilancio 2022 ha chiuso con un utile di 572 mila euro, ma l’equilibrio economico in una situazione ordinaria e con le entrate attuali non sarebbe possibile con più di 60 o 65 dipendenti.

 

Neppure c’è da aspettarsi una impennata degli introiti, considerando la drastica diminuzione del numero dei parlamentari. Perché come ormai in tutti i partiti il contributo finanziario degli eletti è fondamentale. Nel 2022 ha sfiorato 3,6 milioni coprendo il 30 per cento delle spese. Ma quest’anno i 106 deputati e senatori se pure versassero tutti quanti i 1.500 euro al mese dovuti al partito si arriverebbe a 1,9 milioni. E sempre che non ci siano defezioni di entità già sperimentata. Nel bilancio 2022 si racconta che in passato non pochi ci hanno provato e sono stati inseguiti con i decreti ingiuntivi. Precisa la nota integrativa che di quei decreti ne sono stati emessi ben 56 (cinquantasei). Del milione e 650 mila euro di crediti verso parlamentari iscritti a bilancio a oggi è stato recuperato il 43 per cento: 710 mila euro.

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La situazione economica del Pd sarebbe migliore se non fosse finita nelle 67 fondazioni dei Ds la valanga degli immobili dell’ex Pci: molte strutture locali almeno se la passerebbero un po’ meglio non dovendo pagare gli affitti, come racconta Simone Alliva in queste pagine. Ma su quella storia i vertici del partito, compresi gli attuali, hanno sempre glissato. E siccome non c’è da sperare neppure nella resurrezione del vero contributo pubblico ai partiti, le speranze di galleggiamento sono affidate al due per mille. Il Pd si becca ancora la fetta più grossa: 7,3 milioni su 20,4 del gettito globale nel 2022.

 

Le oscillazioni nel numero di chi destina a quel partito una quota sia pure modesta della propria Irpef sono però sintomi di cambiamenti d’umore degli elettori. Negli anni di prima applicazione della regola il segretario era Renzi e nel 2017 si è toccato il record assoluto del numero di versamenti: 602.490. L’anno seguente, con la segreteria di Maurizio Martina, il crollo a 487.748. La ripresa nel 2019, con Nicola Zingaretti: quasi 85 mila dichiarazioni Irpef riconquistate, ma 75.822 perse l’anno seguente. E di nuovo un calo di circa 33 mila in corrispondenza del passaggio di consegne da Zingaretti a Enrico Letta, fino al minimo storico di 464.074 contribuenti. Il 23 per cento in meno rispetto a Renzi. L’anno scorso, ancora Letta alla segreteria, il totalizzatore si è fermato a 475.808. Secondo Fina i dati provvisori di quest’anno starebbero a indicare per Elly Schlein un recupero di circa 60 mila opzioni e 700 mila euro. Auguri.

 

Ma di sicuro c’è che la fetta di contribuenti italiani disposti a dare il proprio 2 per mille dell’Irpef al Pd si è andata sempre più riducendo. All’inizio superava il 50 per cento. Poi è scesa con Martina sotto il 45. Quindi al 36 di Zingaretti. E al 33 di Letta. Una marcia di avvicinamento preoccupante al peso reale del partito.