Sono 67 in tutta Italia, e sono state usate dai Ds per schermare un miliardo di beni del vecchio Pci durante la fusione con la Margherita. Contano in totale tremila immobili da gestire. Ma i bilanci sono quasi ovunque in perdita

Dieci anni, hanno retto. Poi si sono dovuti arrendere ed è comprensibile che la cosa non abbia avuto pubblicità. L’ultimo giorno di maggio del 2017, mercoledì, Barbara Porcari è andata dal notaio per seppellire la fondazione di cui era presidente. «Isonzo», l’avevano battezzata il 10 ottobre 2007, quattro giorni prima della nascita del Partito democratico. Con scarsa fantasia, certo. Ma serviva allo scopo e questo era l’importante. Serviva a blindare in uno scrigno impenetrabile tutti gli immobili dell’ex Partito comunista della provincia di Gorizia. Come quella ne erano state create, a partire dagli ultimi mesi del 2007, altre 66 in tutta Italia. Un’operazione gigantesca, a tappeto. Necessaria secondo i suoi ideatori a mettere sotto chiave l’immenso patrimonio del Pci sopravvissuto alle varie traversie e rimasto in dote ai Democratici di Sinistra.

 

Incombeva la fusione fra i Ds e la Margherita per far nascere il Pd, ma né l’uno né l’altra avevano alcuna intenzione di aprire i rispettivi forzieri e mettere in comune il contenuto. C’era un sacco di roba. I Ds possedevano, malcontati, circa 3 mila immobili. Per un valore di mercato non molto distante dal miliardo di euro. Dai garage alle sedi di partito, dagli appartamenti ai negozi, dalle case del popolo ai cinema, dalle botteghe artigiane ai capannoni industriali, e poi bar, ristoranti, palestre… Un tesoro sterminato, che si estendeva da Gorizia a Palermo, accumulato in 86 anni dai militanti del più grande Partito comunista dell’Occidente anche al prezzo di sacrifici inenarrabili. Perché mai condividerlo con gli ex democristiani? La Margherita invece non aveva un mattone, ma più di 200 milioni di rimborsi elettorali in pancia. Perché mai condividerli con gli ex comunisti?

 

Perciò si scelse di comune accordo la strada di una fusione virtuale: tanto i Ds quanto la Margherita restarono in vita. E il Pd nacque senza un euro di dote iniziale. Già da quello si potevano intuire i problemi politici che sarebbero sorti. Ma mentre i soldi della Margherita potevano restare tranquillamente in banca sul conto gestito dal tesoriere Luigi Lusi (tranquillamente si fa per dire), gli immobili erano invece più a rischio. Molti erano le sedi Ds, che avrebbero però cambiato bandiera: a quel punto che cosa poteva accedere?

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Bisognava studiare un meccanismo per schermare tutte le proprietà dell’ex Pci. Chi lo concepì, pare utilizzando pure spunti tecnici di super esperti come il notaio romano Gennaro Mariconda, era un ex comunista tutto d’un pezzo con un passato da ferroviere: l’abilissimo tesoriere dei Ds Ugo Sposetti. Ovvero l’uomo che aveva salvato quel tesoro così grande e prezioso dalla catastrofe dei debiti dell’Unità. Ogni federazione provinciale dell’ex Pci avrebbe creato una fondazione in cui trasferire tutti gli immobili, governata da un consiglio senza scadenza, a vita. E quando uno dei membri fosse venuto a mancare, sarebbe stato sostituito per cooptazione con il voto dei due terzi dei componenti.

 

Questa era la regola generale, che secondo i piani doveva essere moltiplicata per 67. Assolutamente geniale.

 

Un problema tuttavia esisteva. Ed era Walter Veltroni. Al segretario e promotore del Pd la pietanza non andava affatto giù. Anche perché se l’era trovata cucinata ancor prima di cominciare l’avventura, e senza la possibilità di dire la sua. Repubblica raccontò di un duro confronto fra Veltroni e Sposetti, con il segretario del Pd che avrebbe addirittura accusato il tesoriere diessino di voler creare «una struttura parallela». Parole grosse. Ma è certo che se fosse rimasto in carica Veltroni avrebbe tentato in ogni modo di far saltare quel meccanismo. Poi però si dimise e nessuno ci pensò più sul serio.

 

Con il risultato che adesso, passati ormai 16 anni, non sembra nemmeno che le cose vadano per il verso giusto. E qui torniamo alla fondazione Isonzo. Dice tutto il verbale della liquidazione. C’è scritto che gli incassi degli affitti della controllata Immobiliare Isontina si sono andati assottigliando, che ci sono affittuari insolventi, che le entrate non coprono il costo dei mutui, che neppure vendendo parte del patrimonio, stante la situazione del mercato immobiliare, si potranno far tornare i conti. È un bagno di sangue, insomma. Non resta che chiudere baracca e burattini. Locali commerciali, un bar, una palestra… Che fine farà tutta quella roba?

 

La verità è che molte delle altre 66 fondazioni soffrono per gli stessi problemi. Molti bilanci sono in perdita strutturale, compromettendo anche l’attività culturale che queste fondazioni dovrebbero promuovere con i proventi degli affitti. Prendiamo l’Immobiliare Porta Castello di Bologna, controllata dalla Fondazione Duemila. Ha 52 immobili, per un valore di bilancio di 18 milioni. Incassa 800 mila euro dagli affitti ma ha 3,7 milioni di debiti e nel 2022 ha perso la bellezza di 1,3 milioni.

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Il presidente è Claudio Broglia, ex senatore del Partito democratico. Anche Daniele Buda, presidente della Società culturale ricreativa nuova Rinascita dell’associazione Aurora di Ravenna, proprietaria di immobili per 4,2 milioni compreso un bar ristorante, è un quadro del Pd. Segretario del circolo ravennate Porto Fuori. Forse è normale così, ma anche questo dettaglio fa capire alcune assurdità.

 

Molti dei locali di proprietà delle fondazioni Ds sono circoli del Pd. Partito che spesso paga l’affitto, naturalmente modesto, a una società immobiliare (quando non direttamente a una fondazione) amministrata da un esponente del Pd ma che fa capo a un altro soggetto politico. Il quale però nemmeno esiste più.

 

La fondazione Isonzo, per esempio, è presieduta da una esponente del Pd, Barbara Porcari, e nel suo consiglio, composto da militanti del Pd, c’è anche il segretario provinciale del Pd Marco Rossi. Ma la fondazione (ora in liquidazione) che controlla il patrimonio immobiliare non è del Pd. E questo è anche un bel problema per il partito. Come per le stesse fondazioni, che oltre a dover fare i conti con affitti calmierati, devono farli pure con le capacità gestionali di chi tiene i cordoni della borsa.

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L’Immobiliare modenese, di proprietà della fondazione Modena 2007, ha accumulato negli ultimi due anni perdite per 400 mila euro. Dovute anche alla pandemia, che ha ridimensionato le entrate dei canoni «inclusi quelli dovuti dal Partito democratico, nostro principale affittuario». Ma pur con tutte le difficoltà possibili, che in una delle aree più ricche del Paese una società immobiliare con una quantità ragguardevole di locali adibiti a uffici chiuda i bilanci in perdita significa che qualche problema magari c’è.

 

Vero è che il patrimonio rende meno di ciò che potrebbe. La Fondazione Bella ciao di Ravenna ha 9,9 milioni di euro di immobili e 136 mila euro di ricavi. Nemmeno l’1,4 per cento lordo. Con 8 milioni di patrimonio l’immobiliare Provinciale controllata dall’associazione La Quercia di Siena incassa poco più di 200 mila euro ma ne perde 100 mila. Alcune fondazioni, va detto, cedono al Pd le sedi in comodato, sì, gratuito, ma a patto che il partito si faccia carico delle rate dei mutui e delle spese correnti. Cosa che non sempre avviene. La fondazione perugina Pietro Conti, con un patrimonio di 7 milioni e 87 mila euro di incassi, lamenta nel bilancio 2022 che il Pd dell’Umbria deve ancora «onorare impegni» per 79.290 euro. Mica bruscolini.

 

Anche per questo la vicenda della Isonzo dovrebbe servire da insegnamento. È proprio sicuro che quel marchingegno concepito con la motivazione di non disperdere il patrimonio del Pci abbia ancora un senso e non sia invece diventato una inutile palla al piede che disperde il patrimonio della sinistra?