I costi dell'opera che dovrebbe collegare Messina e Reggio Calabria sono lievitati a 15 miliardi di euro. Già in campagna elettorale per le Europee, il ministro annuncia che la manovra dirotterà sul progetto 700 milioni dai lavori già appaltati per il Piano di ripresa. Che rischiano il blocco

Le dichiarazioni dei politici hanno un problema: lasciano il segno. Sempre. Sette anni fa Matteo Salvini bocciava il ponte sullo Stretto di Messina anche perché «ci sono parecchi ingegneri che dicono che non sta in piedi». Senza ammettere repliche. Alla vigilia delle Politiche del 2022 per il futuro ministro delle Infrastrutture era invece diventato «opera fondamentale per unire Italia ed Europa». Per di più «interamente finanziata da fondi privati». E qualche giorno fa ha annunciato con orgoglio che la manovra copre «l’intero fabbisogno economico e finanziario dall’apertura dei cantieri, nell’estate 2024, al 2032».

 

Fondi privati? Nemmeno per sogno. Soldi pubblici, tutti: 11 miliardi e 630 milioni di euro. E c’è pure un’altra sorpresa. Con le ristrettezze di bilancio, dove hanno trovato il primo miliardo degli 11,6 da stanziare per l’anno prossimo? Semplicissimo. Anziché il miliardo previsto per l’adeguamento prezzi degli appalti pubblici, andati alle stelle, ecco 300 milioni. Fateveli bastare. Gli altri 700 si dirottano sul ponte. Ma così, protestano i costruttori, rischiano di fermarsi i cantieri del Pnrr, che sono più di 2.400 per 11 miliardi di euro e vanno chiusi tassativamente nel 2026, non nel 2032. Roba da matti, fanno capire.

 

Nessuna pazzia, invece. Solo un’emergenza politica: la campagna elettorale delle Europee. Quella fa premio su ogni altra cosa, pure gli appalti del Pnrr. C’è solo un problemino. Perché il costo aggiornato del ponte è di 13,5 miliardi. Più 1,1 miliardi per le connessioni ferroviarie. Più una somma ancora ignota per le connessioni stradali. Più i 320 milioni e rotti già spesi per il progetto. Totale: 15 miliardi. Per difetto, s’intende. Altro che 11,6. Un botto. Quasi il doppio della somma prevista nel 2012, quando l’opera si è fermata per la seconda volta.

 

Eppure quasi nulla è cambiato. La due diligence di Italferr, società di ingegneria delle Fs cui è stata chiesta un’analisi, ha concluso che «le modifiche/integrazioni necessarie per adeguare il progetto sono tali da non alterarne l’impianto e la consistenza». E allora? Anche qui ci sono gli aumenti dei materiali, come si è detto. Ma soprattutto il general contractor Eurolink e la società Parsons che avevano fatto causa hanno accettato, sì, di ritirarla e riattivare il contratto. Solo però a determinate condizioni. Proprio com’era già accaduto nel 2009, quando il contratto d’appalto bloccato nel 2006 dal governo di Romano Prodi era ripartito con il governo ter di Silvio Berlusconi. Fatto sta che ogni volta il costo è salito. Dal bando iniziale, aggiudicato nel 2005 al prezzo di 3,88 miliardi per il solo ponte, si è passati a 6,3 miliardi e poi a 8,5 con le opere accessorie, poco prima del secondo stop decretato nel 2012 dal governo di Mario Monti. E ora siamo già a 15.

 

La stima non è campata per aria. È contenuta nell’ultimo bilancio della rediviva società concessionaria Stretto di Messina. Dove riecco l’amministratore delegato Pietro Ciucci. Otto anni fa con le dimissioni dall’Anas era sparito dai radar: ora è l’ultimo dei boiardi di Stato a tornare sulla breccia. E non avrà difficoltà a rinverdire i fasti di quell’epoca gloriosa, quando le partecipazioni statali lottizzate dai partiti facevano e disfacevano. Tanto per far capire l’atmosfera, assieme a Ciucci nel nuovo consiglio di amministrazione si è trovato un posto per Giacomo Francesco Saccomanno, commissario della Lega e dunque plenipotenziario di Salvini in Calabria, senza filtri.

 

E perché non ci siano dubbi che si torna ai vecchi tempi con il governo al timone senza intermediari, il 51 per cento della Stretto di Messina spa, oggi controllata dall’Anas, si dovrà trasferire al ministero dell’Economia presieduto dal leghista Giancarlo Giorgetti. Lo prevede un decreto di marzo. Del resto non c’è un po’ di Stato anche in chi costruirà il ponte? Capofila del consorzio Eurolink è Webuild, di cui è azionista anche la Cassa depositi e prestiti. Infine, giusto per dare un pizzico di modernità post-Italstat, le procedure con cui si farà il ponte potrebbero essere quelle delle grandi opere della legge obiettivo. Riportando in vita gli spiriti delle Piramidi e della Grande Muraglia evocati dal già ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi. Anno 2001, secondo governo Berlusconi.

 

Non sarebbe giusto a questo punto ignorare che tutto ciò è stato reso possibile da una sola persona. Ossia l’uomo che ha impedito il funerale della Stretto di Messina spa. Il suo nome, Vincenzo Fortunato. Ex potentissimo capo di gabinetto di Giulio Tremonti in quello stesso governo con Lunardi, fu nominato da Enrico Letta nel 2013 liquidatore della Stretto di Messina spa. Per legge la procedura doveva durare al massimo un anno. Lui l’ha fatta durare dieci. Con autentici colpi di genio (fare causa allo Stato chiedendo come risarcimento i 320 milioni spesi per il progetto del ponte già pagati dallo Stato non è una mossa geniale?) capaci però di far inorridire la Corte dei Conti.

 

Che nel 2018 ha pubblicato “La problematica chiusura della liquidazione della Stretto di Messina spa”, una relazione ustionante di 28 pagine il cui titolo dice tutto. Dentro, la storia di come gli apparati statali siano stati incapaci di far rispettare la scadenza stabilita per legge con un’incredibile serie di scaricabarile e comportamenti pilateschi. Fino al 2 ottobre 2018, quando il premier Giuseppe Conte e il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli decisero di trovare una via d’uscita tecnica accettabile. Venne delegato il segretario generale di Palazzo Chigi, precisava una nota della presidenza, «cui compete ogni valutazione in merito». Poi più nulla.