L’assenza della voce di chi protesta e chiede coraggio e velocità è grave. Serve l’attivismo sociale per accelerare e produrre cambiamento tra le persone

Il 2023 è l’anno più caldo mai registrato, con 1,4 gradi al di sopra della media globale preindustriale, e il 99% della comunità scientifica ci dice che sarà rapidamente superato e che la responsabilità è dei combustibili fossili. La posta in gioco è la velocità con cui si interverrà. Tanto che lo scontro è tra chi vuole rallentare e chi vuole accelerare. Gli effetti sono evidenti: tempeste, inondazioni, incendi, siccità. E nuovi rischi per la salute, dichiara l’Oms: ondate di calore, inquinamento dell’aria, ansia per i rischi e per le difficoltà a risollevarsi dopo un evento estremo, diffusione di malattie. Tutte ragioni che hanno portato Antonio Guterres, segretario generale dell’Onu, a parlare di collasso climatico, il cui prezzo più alto lo pagheranno i Paesi e le persone più povere. Di questo si sta discutendo a Dubai, tra 70 mila delegati, 140 capi di Stato e alti dirigenti di governo di 193 Paesi. L’imperativo categorico: definire risorse per l’adattamento, soprattutto nei Paesi poveri, e standard vincolanti per la riduzione delle emissioni climalteranti, che all’80% provengono dai Paesi del G20.

 

Ma in questa grande kermesse mondiale manca un protagonista. Ci sono gli Stati, le grandi aziende del fossile, le aziende innovatrici delle rinnovabili e dell’efficienza, i rappresentanti di istituzioni sovranazionali. Manca però, come è mancato a Sharm el-Sheikh in Egitto nel 2022, il movimento sociale per la giustizia climatica, che ha accompagnato le Cop, fino a Glasgow, quando in piazza sono scese più di centomila persone: ospite sgradito e spiacevole per i regimi totalitari. L’assenza della voce di chi protesta e chiede coraggio e velocità è grave. Ce l’hanno detto, proprio su queste pagine, Charles Sabel e Rossella Muroni nell’intervista di Fabrizio Barca, sostenendo che la trasformazione è urgente e tanto più ha bisogno di «dialogo nazionale» e di coalizzare, in un programma condiviso con la politica, le imprese più innovatrici, la cittadinanza organizzata, i movimenti, il sindacato: gli accordi della Cop «sono un passo avanti se assoggettati al controllo democratico». Per svilupparlo servono partecipazione, informazioni trasparenti, disponibilità istituzionale, attivismo civico, lungimiranza politica. Ma serve anche un movimento sociale che spinga ad accelerare e produca cambiamento tra le persone.

 

È quanto hanno fatto, prima della pandemia, i Fridays for Future, dopo anni di latitanza dei movimenti a scala globale, con una nuova generazione in campo, che si politicizza rapidamente, produce fiducia nel cambiamento, critica la politica dei potenti, propone stili di vita e mobilitazioni diversi e un nuovo modo di stare insieme. Oggi la lotta contro il cambiamento climatico è più avanti di dieci anni fa, sul piano dell’innovazione tecnologica e della sensibilità sociale. Ma questo non è sufficiente a modificare i rapporti di forza con i grandi monopoli del fossile. Un largo movimento sociale, articolato nei territori e con alleanze tra il mondo dell’innovazione tecnologica e quello dell’impegno civico, può fare la differenza ed essere la leva per accelerare il cambiamento. Una partita aperta che si giocherà nei prossimi anni.

 

Vittorio Cogliati Dezza è membro del coordinamento Forum Disuguaglianze e Diversità