Oltre 500mila abitazioni e 84mila aziende costruite in aree pericolose. Ma gli enti locali continuano a rilasciare permessi e si cementificano zone già colpite da calamità disastrose. Dalla Liguria alla Sicilia, la cartina del rischio

Sarno e Quindici (1998), Valle d’Aosta (2000), Val Canale (2003), Messina (2009), Borca di Cadore (2009), Val di Vara, Cinque Terre e Lunigiana (2011), Alta Val d’Isarco (2012), San Vito di Cadore (2015), Madonna del Monte (2019), Chiesa in Valmalenco (2020), poi naturalmente Senigallia (2014 e 2022) e Ischia (2022).

 

Sono alcune delle migliaia di zone d’Italia che, solo negli ultimi 15 anni, sono state colpite da frane e alluvioni disastrose, quelle «improvvise, rapidissime e a elevata distruttività», come le classificano gli esperti dell’Istituto superiore per la Protezione e la Ricerca ambientale (Ispra). Il dissesto idrogeologico è una cronica emergenza nazionale che con il cambiamento climatico diventa sempre più grave. L’Italia è per natura una nazione ad alto rischio di frane (più di un quarto del totale europeo), inondazioni, terremoti, eruzioni vulcaniche, ma da più di mezzo secolo è anche la più devastata dalla speculazione edilizia. Dal 1971 al 2021 smottamenti e alluvioni hanno provocato 1.630 morti accertati, 48 dispersi, 1.871 feriti, oltre 320 mila senzatetto. Eppure nel nostro Paese si continua a cementificare, ogni anno, più di 60 chilometri quadrati di campagne, prati, boschi, sponde dei fiumi e coste dei mari. Un’enorme crosta di asfalto e calcestruzzo, impermeabile, che cancella le difese naturali e favorisce il dissesto.

Il grafico evidenzia il numero di persone residenti in aree ad alto rischio di frane: meno di 25 (verde), fino a 250 (giallo e arancione), fino a 5 mila (rosso), fino a 45 mila (nero).

«Si continua a costruire in tutte le regioni perfino su terreni censiti ufficialmente come pericolosi», denuncia il professor Paolo Pileri che insegna Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. «L’Ispra pubblica sul sito EcoAtlante le mappe dettagliate di tutte le aree di rischio, con i diversi gradi di pericolosità per frane, alluvioni, terremoti e altro. Ma troppi enti locali ignorano questi dati e autorizzano nuove opere che aggravano il dissesto. Poi, dopo i disastri, si contano le vittime. Di questi problemi dovremmo ragionare prima, non piangere dopo».

 

E cosa si potrebbe fare subito? «Basterebbe applicare in tutta Italia una regola semplice: nelle aree a rischio, il consumo di suolo dev’essere zero. In tutti i Paesi più civili nessuno può costruire niente su terreni pericolosi», risponde il professore che precisa: «Le questioni ambientali sono di una scala di grandezza tale da non essere più gestibile dal singolo ente locale. Occorre un’autorità centrale, un organo tecnico indipendente, per censire e perimetrare tutte le zone a rischio e imporre vincoli assoluti, inderogabili. Per questo sono fondamentali istituti come l’Ispra».

l grafico segnala il numero di persone residenti in aree a rischio di alluvioni: meno di 50 (verde), fino a 7500 (giallo e arancione), fino a 100 mila (rosso), oltre 100 mila (nero)

Ampie fasce d’Italia sono minacciate da millenni anche dai terremoti, che negli ultimi decenni hanno causato migliaia di vittime dal Friuli all’Irpinia, dall’Umbria all’Abruzzo. Ciò nonostante, secondo gli ultimi dati raccolti dall’Ispra, anche nel 2021 sono state costruite nuove case, fabbriche o strade su ben 24 milioni di metri quadrati di terreni «a rischio sismico elevato» o «molto elevato», soprattutto in Campania, Calabria e Sicilia, seguite da Emilia e Veneto.

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L’Espresso ha chiesto la collaborazione dell’Ispra per verificare la situazione edilizia in dieci luoghi simbolo già colpiti da pesanti calamità, anche più volte, negli ultimi vent’anni. Dal Nord al Sud Italia: Alessandria, Genova, Oltrepò Pavese, Senigallia, Roma, Area Vesuviana, Sarno, Ischia, Fiumara, Messina. Nelle dieci mappe elaborate dall’Ispra per L’Espresso, che pubblichiamo con questo articolo, vengono evidenziate le superfici edificate (in nero) e, nella stessa cartina, le aree a più alto di frane (in marrone) e alluvioni (in blu). I fabbricati più recenti, costruiti tra il 2006 e il 2021, vengono segnalati in rosso.

 

Le carte dei tecnici documentano che, in tutti e dieci i luoghi simbolo, le varie amministrazioni locali hanno continuato a concedere licenze edilizie, anche dopo i peggiori disastri, su terreni già classificati a livello nazionale come molto pericolosi. In particolare, nella provincia di Alessandria, nonostante le tragiche alluvioni del 1994 (70 vittime) e del 2000 (23 morti), oltre a calamità più recenti, il cemento resta il motore di una crescita insostenibile: dal 2006 al 2021 i nuovi fabbricati hanno invaso 51 ettari di terreni con «pericolo elevato di inondazioni» e altri 45 mila metri quadrati ad «alto rischio di frane».

 

Nel fantastico gergo degli urbanisti, gli edifici collocati in zone «a pericolosità media» di inondazioni vengono chiamati «case allagabili». Nella mappa di Roma balza agli occhi la quantità di abitazioni in questa classe di rischio: migliaia di «case allagabili», realizzate anche negli ultimi quindici anni con nuove ondate di cemento, sotto giunte di ogni bandiera politica.

 

A Genova la crosta grigio-nera ricopre già un quarto di tutto il territorio: 5.695 ettari di cemento. In una città dove fiumi e torrenti sono stati ostruiti, intubati e ricoperti d’asfalto, per cui straripano a ogni nubifragio, oggi si contano più di sei milioni di metri quadrati di «case allagabili» e altri 3,8 con alluvioni «molto probabili». Spaventosi anche i dati sulle frane: «rischio elevato» per oltre quattro milioni di metri quadrati di immobili, «molto elevato» per altri 388 mila. Seppelliti i morti degli ultimi disastri, anche qui è ripartita l’edilizia speculativa: fino al 2021, le nuove costruzioni hanno cancellato altri 60 mila metri quadrati di verde in zone ad alto rischio di inondazioni e 110 mila nelle aree di massimo pericolo per le frane.

 

Se al Centro-Nord di solito si cementifica con tutti i permessi, al Sud non sempre. A Ischia, dove l’alluvione del novembre scorso ha ucciso 12 persone, Legambiente ha contato oltre 27 mila richieste di condono di abusi edilizi pendenti da decenni. Le mappe evidenziano che frane e alluvioni minacciano gran parte dell’isola. Ma l’assalto del cemento è proseguito, dal 2006 al 2021, al ritmo di 10 mila metri quadrati di nuove costruzioni l’anno.

Il grafico evidenzia la densità delle costruzioni (percentuale di suolo consumato) nelle aree a rischio di terremoti: meno del 5 per cento del territorio (verde), fino al 9 (giallo e arancione), fino al 15 (rosso), fino al 30 (bordeaux), oltre il 30 per cento (nero)

In tutta Italia, oltre 2,4 milioni di persone vivono in case ad alto rischio di inondazioni. Sommando le zone «a media pericolosità idraulica», la popolazione esposta alle alluvioni sale a 6,8 milioni di persone. Le frane più gravi minacciano 565 mila abitazioni, con più di 1 milione e 300 mila residenti, e 84 mila aziende, con 220 mila dipendenti.