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Migranti, quel suicidio che si poteva evitare nell’inferno del Centro per i rimpatri di Torino

Irregolare, Moussa Balde finisce nella struttura dopo essere stato ricoverato per un pestaggio. E lì, abbandonato a sé stesso, si toglie la vita. La famiglia ora chiede giustizia

«Gli ho detto di venire a casa mia, ha risposto che sarebbe venuto. Poi io sono andato in quella direzione, verso il lavoro, e lui ha preso la strada per Ventimiglia. Non l’ho più sentito». Amadou Diallo racconta il suo ultimo incontro con Moussa Balde, dall’incrocio dove si sono visti per l’ultima volta. Per alcuni anni, i due ragazzi guineani hanno condiviso tutto, casa, quotidianità, aspirazioni, paure, fino a diventare «gemelli».

Diallo si trovava già da un anno in Italia, quando Balde è arrivato al Centro d’accoglienza di Imperia. Lo descrive come un ragazzo positivo, amante del calcio e del divertimento. Faceva volontariato in un’associazione che aiutava le persone con disabilità ed era riuscito a trovare lavoro in una cooperativa di Bordighera. Anche quando Diallo si è trasferito a Sanremo, Balde andava a trovarlo e spesso restava da lui a dormire. Per tre anni ha aspettato l’esito della domanda di asilo, poi però ha deciso di andare in Francia. Rientrato in Italia, non sembrava più lo stesso.

Diallo ha di nuovo sue notizie da un video che fa il giro del Paese e che riprende un evento avvenuto il 9 maggio 2021: Balde viene picchiato violentemente con un tubo di metallo sul corpo e sul viso da tre ragazzi, Ignazio Amato, Francesco Cipri e Giuseppe Martinello, mentre chiede l’elemosina di fronte a un supermercato di Ventimiglia. Il video arriva anche agli aggressori, che, dopo essersi riconosciuti, si presentano in Commissariato sostenendo di essere stati derubati. «Nessuno si è preoccupato di offrire a Moussa le garanzie che la legge assicura alle vittime di reati violenti. Da quel momento lui è tornato a essere un invisibile, un irregolare, un clandestino», spiega Gianluca Vitale, avvocato della famiglia Balde.

Lo scorso 10 gennaio si chiude il primo capitolo della vicenda giudiziaria. La giudice del Tribunale di Imperia, Marta Maria Bossi, condanna Amato, Cipri e Martinello a due anni per lesioni, riconoscendo le attenuanti generiche. La sentenza viene accolta con favore sia dalla parte civile sia dalla difesa. Il risarcimento del danno, inoltre, viene portato dai duemila euro già corrisposti a tremila. L’aggravante dell’odio razziale, però, non era stata contestata. Ma la storia di Balde non termina con il pestaggio.

In ospedale il ragazzo guineano resta per poche ore, prima di finire nelle celle di sicurezza del Commissariato di Bordighera, poi in Questura a Savona. Qui, una volta constatata la sua irregolarità, gli viene notificato un decreto di espulsione. Il giorno dopo viene rinchiuso nel Centro di permanenza per il rimpatrio di Torino e messo in isolamento nell’Ospedaletto della struttura. Lì, nella notte tra il 22 e il 23 maggio, si toglie la vita.

Al Cpr nessuno tiene conto della situazione psicologica di Balde, viene esaminata solo la sua condizione fisica. Dopo la visita del medico dipendente dell’ente gestore, all’epoca Gepsa, viene dichiarato idoneo alla vita in quella comunità. L’ente sosterrà poi di non sapere che Balde fosse vittima del pestaggio. «Strano, perché era stato portato da Ventimiglia con un certificato medico. Mi auguro che attestasse l’aggressione subita», sottolinea Vitale. È la prima cosa, infatti, che Balde dice all’avvocato quando lo incontra: «Immagino che l’abbia detto anche quando è stato preso in carico nel Cpr». Vitale nota nel ragazzo una grande sofferenza, perché non solo era stato aggredito, «ma si trova pure prigioniero, come se la punizione dovesse toccare a lui».

I regolamenti sui Cpr del 2014 e del 2022 prevedono che la visita di idoneità sia svolta dall’Asl competente, un’istituzione indipendente. Ma in molti casi ciò non avviene. L’ultimo protocollo d’intesa tra il Cpr torinese e l’Asl «risale al 2015, ma la visita al primo ingresso è stata fatta per molto tempo dal medico del gestore», spiega la garante delle persone private della libertà del capoluogo piemontese, Monica Gallo. Oggi, nonostante la visita «non gravi più sul medico del Centro, ma sia compito esclusivo dell’Asl», ancora non esiste un accordo su un nuovo protocollo. È lo stesso regolamento a elencare le patologie psichiatriche tra quelle «che rendono incompatibile l’ingresso e la permanenza nella struttura».

Balde non ha goduto di sostegno psicologico ed è stato anche collocato in isolamento per un’infezione della pelle, probabilmente una psoriasi scambiata per scabbia, nell’area distaccata dell’Ospedaletto. Una sezione che per il garante nazionale Mauro Palma configura un «trattamento inumano e degradante», un luogo che non è regolato da alcuna norma, privo di garanzie, di stimoli e di occasioni di socialità. Palma ne ha chiesto la chiusura, ottenuta per ordine della Procura solo dopo la morte di Balde e, ancora prima, nel 2019, quella di Faisal Hossein, cittadino bengalese di 33 anni.

Nessuno dei guineani rinchiusi nel Cpr di Torino negli ultimi due anni è stato rimpatriato: l’assenza di una simile prospettiva dovrebbe portare al rilascio immediato. Balde, invece, è stato abbandonato, «senza che nessuno si prendesse cura di lui. E questa situazione evidentemente per lui è diventata intollerabile, determinando la scelta tragica di togliersi la vita», commenta Vitale. La famiglia non ha più avuto sue notizie fino alla morte. È stato Diallo ad avvertirla: «È stato molto difficile, ma era l’unica cosa che dovevo fare». Nessuno, né dall’ospedale né dal Cpr, aveva avvisato i parenti. «Nostra madre non fa che piangere», dice Thierno, fratello di Moussa: «All’inizio ci avevano detto che si era trattato di un incidente, solo dopo abbiamo scoperto che lo avevano lasciato morire».

Dopo il suicidio, la Procura di Torino ha aperto un procedimento per omicidio colposo. Sono indagati la direttrice della struttura, il medico e nove poliziotti. La storia di Balde inizia con la fuga dalla Guinea, ai tempi del presidente Alpha Condé, sanzionato dagli Stati Uniti per le violenze contro gli oppositori prima del colpo di Stato del 2021. Diallo, che nel 2020 è tornato per un periodo nel suo Paese, racconta che la solitudine ha un forte impatto su Balde quando va a cercare fortuna in Francia: «Non trovava un amico come me». Vive allora di elemosina per strada. «Già a Ventimiglia palesava forti disagi psichici. Non parlava, non comunicava», afferma Vitale.

Eppure, appena arrivato in Italia, Balde sembra fiducioso. In una delle prime chiamate dice alla madre: «Voglio rimanere, studiare la lingua. Cerco lavoro qui e cerco di darvi soddisfazioni». Le stesse parole le ripete a Thierno durante il suo viaggio dalla Guinea all’Italia. Il fratello è il primo a sentire Moussa, quando questi è già in Libia. Dove viene imprigionato. «Non potevamo farci niente, non c’era nulla che lo convincesse a tornare». Balde richiama poi la famiglia dal nostro Paese, quando è ormai al sicuro.

«Spero che ciò che è successo a Moussa non accada ad altri. Dobbiamo chiudere questi Cpr», dichiara Thierno. Il trasferimento della salma di Moussa a Conakry, capitale della Guinea, è stato possibile grazie al Comitato Torino per Moussa. Lo stesso che ha portato Thierno in Italia per farlo assistere in ottobre all’udienza del processo di Imperia. L’avvocato Vitale ripete più volte che il Cpr di Torino è stato usato in varie occasioni dalla Questura di Imperia come una sorta di «discarica sociale». Tutte le persone che transitano da Ventimiglia per varcare il confine con la Francia rischiano di rimanere lì, bloccate in un limbo amministrativo che le rende invisibili.

«Probabilmente non si arriverà a individuare tutte le responsabilità», si rammarica l’avvocato. La famiglia, però, chiede che venga fatta giustizia sia sul pestaggio sia sulla morte di Moussa. «Voglio che si rendano conto che quello che hanno fatto non è normale», aggiunge Djenabou, la madre: «È l’unica cosa che vogliamo. Aiutateci».

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