L’amaro: uno dei cinque sapori, almeno stando al numero più canonico dello “spettro gustativo”. Un sapore per età adulta, quando si è metabolizzata la componente mentale del rischio di tossicità che induce proprio questo gusto, che si ama o si odia. Piace agli chef più coraggiosi ma piace anche nei contesti della cucina popolare. Lo dimostra un vegetale come la Cicoria comune (nome scientifico Cichorium Intybus) che appartiene alla famiglia delle Asteraceae: una pianta erbacea perenne dai fiori azzurri che cresce spontaneamente in tutte le aree erbose e da sempre, specialmente in primavera, è pronta alla raccolta.
I Romani la conoscevano già prima della nascita di Roma non solo per il suo uso alimentare ma anche per le sue qualità terapeutiche. Il leggendario medico Galeno di Pergamo, la considerava amica del fegato. Mentre Marco Gavio Apicio la trattava dall’alto della sua competenza culinaria come ottimo ingrediente e suggeriva di cucinare la cicoria con il garum, l’olio e la cipolla affettata. La cicoria rappresenta il segno di riconoscimento delle verdure più povere ma anche più conosciute e utilizzate in cucina soprattutto nel Lazio con preparazioni semplici ma molto saporite come la tipica cicoria lessata e passata in padella con aglio, olio extravergine d’oliva e peperoncino.
In Basilicata e Puglia la cicoria lessata diventa contrappunto di una passata di fave secche prendendo il nome di ’ncapriata. Ma la cicoria non è solo gustosa nella parte verde ma anche la sua radice ha una nicchia di amatori, noi tra i quali. Già nel 1700 la radice della cicoria essiccata, tostata, macinata e preparata come infuso, era utilizzata come correttivo o surrogato del caffè, dal medico padovano Prospero Alpini che ne aveva scoperto le proprietà curative. Un uso che venne ripreso durante l’ultimo conflitto mondiale come succedaneo del caffè. Un epicentro della “resistenza” di queste radici è stato un piccolo comune padano: Soncino. Anche se in questi ultimi tempi la produzione più ingente si è trasferita nel Bresciano e la radice amara di Mairano è divenuta De.co. Il suo utilizzo ci venne raccontato da Gaudenzio a fine ’700: «Piglia la redice, raschiala e tagliala a fettoline: falla poi cuocere in acqua bollente per mezzo quarto d’ora: scolala da quell’acqua e tornale a cuocere in brodo grasso bollente e quando saranno cotte ci potrai mettere rossi d’ova, cascio dolce, spetiarle e un poco di colore». Ricetta che ancora oggi avrebbe sua ragion d’essere. Ma si possono anche semplicemente preparare in insalata: cotte lessate a rondelle e condite con olio, limone o aceto di vino e sale. Oppure condite con la bagna cauda, per dare un maggior vigore sapido-aromatico.
DOLCE
Il Maritozzo
Nel Medioevo, durante il periodo della Quaresima, serviva per addolcire i lunghi giorni di magro, poi stava finendo nel dimenticatoio. Anche grazie ai social è tornato prepotentemente a nuova vita. Pasta povera e cuore voluttuoso.
E AMARO
Il no show nei ristoranti
Un atto di profonda maleducazione. Non presentarsi, non disdire, effettuare prenotazioni multiple per scegliere all’ultimo momento sta diventando un problema sempre più serio per i ristoranti già tartassati da spese e rincari.