Quando nella semi finale dei Campionati del mondo l’Argentina batté l’Italia ai rigori, Maradona scansò tutti i giornalisti e disse: scusate ma devo parlare con il mio amico Gianni Minà. Carmelo Bene stava per apparire alla Madonna e si lasciò andare in tutte le intonazioni di cui era capace a cose inaudite contro Giorgio Albertazzi negli anni in cui, era il 1982, il Teatro si scriveva con la T maiuscola. E Gianni Minà era lì in studio, a Blitz con la sua cartellina dai fogli scomposti che sfogliava come un direttore d’orchestra. Minà che intervistava sul set Bob De Niro e Sergio Leone, come se fosse una cosa qualsiasi. Minà sulla cui agendina telefonica Massimo Troisi costruì una gag sontuosa, pensando alla F di Fidel, alla C di Cassius, che non era ancora Mohammed Ali ma che lo sarebbe diventato a breve, stringendo con Gianni un legame a doppio filo.
Gianni Minà, giornalista incapace di urlare, con quella sua aria sempre sgualcita ma accudente che entrava nel mondo dello sport, della musica, del cinema con la naturalezza timida ed educata di uno di famiglia. Maestro di una professione quasi perduta, era capace di passare da Vasco ai Beatles, da Platini a Sepulveda animato sempre dalla stessa curiosità. Il 28 marzo del 1976 sbuco davanti alle telecamere presentando un signore di nome Charlie Mingus a Renzo Arbore. Era la prima puntata dell’Altra Domenica, quella rivoluzione televisiva che avrebbe spalancato le porte alla nuova era. Di Gianni Minà ora pioveranno parole e ricordi, lui il giornalista stimato da Sandro Pertini ma dimenticato da una tv ingrata, l’intervistatore generoso che arrivava ovunque, l’uomo che conosceva tutti e che tutti volevano abbracciare.
Come ha fatto Favino con un ultimo quanto inconsapevole omaggio. In Call my agent, quando resta imprigionato nella parte di Che Guevara e la moglie gli chiede sconsolata: ma con chi sei al telefono? Con Gianni Minà.