Non c’è solo la rotta via mare. Lo sa bene Alì che in tre mesi, dall’Afghanistan, ha attraversato sette Paesi e ora è qui a Fiume, in Croazia, a riposare al sole tiepido del mattino. I suoi compagni di viaggio stanno ancora dormendo sulla banchina del binario morto della stazione, avvoltolati nelle coperte fino a sparire, come in un bozzo di lana. Alì vuole parlare e raccontare la sua storia, perché è scampato ai talebani che volevano ammazzarlo e che hanno trucidato suo fratello e suo cugino. Erano tutti e tre poliziotti in forze al governo di Ashraf Ghani.
«Ci ho messo sei mesi per arrivare qui da Kapisa, a Nord di Kabul. Ho attraverso dapprima il Pakistan, poi l’Iran e la Turchia. E poi dalla Turchia sono passato in Bulgaria, da dove ho iniziato a risalire i Balcani attraverso la Serbia, la Bosnia. E ora sono qui in Croazia. Ma all’imbrunire mi rimetterò in cammino verso la Slovenia e poi l’Italia», spiega Alì. Le sue scarpe sono maciullate e i suoi compagni sono così magri che è quasi incredibile come possano aver camminato per migliaia di chilometri su gambe tanto sottili. Perché la rotta balcanica è dura, aspra, faticosa, difficile. Non è percorribile da tutti. Ecco perché alla stazione di Fiume in maggioranza sono ragazzini, uomini in forze. Le donne e i bambini sono pochi. Chi non ce la fa a risalire il fianco est dell’Europa, in Turchia è costretto a pagare i trafficanti e a salire sui barconi.
In questo piccolo avamposto sul lato della stazione di Fiume ci sono dei piccoli prefabbricati, uno con bagni e docce, l’altro è adibito a magazzino per cibo, vestiti e medicine. In fondo c’è un tendone dove i migranti possono ripararsi quando fa freddo e non si può stare all’aperto. Ma i ragazzi sono sempre troppi e molti, irrimediabilmente, restano fuori.
«Facciamo quel che possiamo. Siamo una quindicina e riusciamo a fare tutto questo grazie all’aiuto di tanti cittadini, ma soprattutto grazie all’Arcivescovado e alla Caritas di Fiume», racconta Sara, una delle volontarie che gestisce il punto d’accoglienza. Mentre indica i binari, aggiunge: «Questi poveri ragazzi non possono essere abbandonati. Ogni tanto arriva qualcuno veramente malconcio, eppure non riesce a credere che lo vogliamo aiutare. Sono così abituati a dover pagare per qualunque cosa o a essere maltrattati che non si fidano all’inizio». Sabah al khair, Sara. Ciao, Sara: la salutano come fosse una vecchia amica, anche se l’hanno appena conosciuta e tra qualche ora andranno via. È quasi tempo di rimettersi in cammino.
Dalla Croazia il viaggio riprende in direzione Slovenia, con un autobus che li porta fino a Buzet, a pochi chilometri dal confine. Da lì i migranti proseguono a piedi, ancora attraverso le montagne, sfidando la bora e magari anche un orso. Se si percorre la stessa strada in macchina, s’incrocia il muro metallico di filo spinato che segna il confine tra i due Paesi. Anche se la Croazia, ora che è entrata in Schengen, lo dovrebbe smantellare. Il cammino è tortuoso, non è una passeggiata.
«In qualche ora, se sono di buona lena, i ragazzi riescono ad arrivare al confine italiano e poi scendono verso Trieste oppure verso Gorizia». A raccontarlo sono Micol, del coordinamento di Udine, e Massimo, un attivista di Gorizia. In città, alcune persone hanno deciso che non si potevano lasciare queste persone all’addiaccio, senza coperte, cibo o acqua, specialmente d’inverno. E così, con un’efficace organizzazione in turni, il gruppo si ritrova alle 23 circa alla stazione per aiutare chi è appena arrivato dalla rotta balcanica.
«All’una di notte la stazione chiude, quindi i ragazzi sono costretti a spostarsi fuori. E così, per non farli morire di freddo, diamo loro le coperte e portiamo latte, biscotti. Per rifocillarsi un po’», spiega Massimo. Lui e Francesca, un’altra delle attiviste del gruppo, fanno prima una tappa nella sede cittadina del Forum Gorizia, che ospita un magazzino pieno di vestiti e viveri. Presi cracker, coperte e succhi di frutta, corrono alla stazione perché è quasi mezzanotte, ma ci sono ragazzi che ancora arrivano, spaesati e sfiniti. Sono per lo più afgani, siriani, pakistani e bengalesi. Ma di recente, notano i volontari, ci sono flussi consistenti dal Burkina Faso, compresi tanti bambini. «Ci raccontano di essere arrivati in aereo fino a Belgrado, capitale della Serbia, e poi di aver percorso l’ultimo tratto a piedi».
I migranti provenienti dall’Africa occidentale non sono frequenti sulla rotta balcanica, ma ultimamente sono aumentati di numero. Si sono registrati arrivi anche dal Burundi e dal Congo. Quando queste persone hanno confidato i motivi che le hanno spinte a muoversi, hanno spiegato che nel loro Paese mancano cibo e acqua. Sono i migranti climatici, cui l’Unione europea non sta dando grande attenzione. Dopo le recenti stragi nel Mediterraneo, l’interesse della politica italiana ed europea si è concentrato sulla Libia e sui viaggi per mare.
Ma, in realtà, la rotta balcanica è tra le più battute. Da lì nel 2022 sarebbero entrate in Italia circa 13 mila persone e nel 2023 il numero potrebbe facilmente essere superato. Già a gennaio, infatti, ne erano arrivate oltre 1.100. Sia perché durante l’inverno il flusso non è diminuito sia perché i trafficanti hanno raddoppiato mezzi e capacità, oltre che le tariffe. «Le polizie di frontiera ci hanno picchiato spesso o hanno chiesto soldi anche solo per farci ricaricare un’ora il telefono a una presa della corrente di una stazione di bus», racconta Faisal, anche lui afgano: «Ma nessuno ci ha spinti a partire, siamo scappati per poter sopravvivere».