
E ricordo che prese la testa tra le mani come a volersi scrostare dal viso l’identità e la memoria e il passato e il presente. E diceva: «Perché il mondo non ci ascolta, perché? Perché non ascoltano i bambini piangere di notte, le madri dolenti?».
Tutti emaciati, sempre più magri, sempre più magri. Alcuni magri alla morte. Quanti morti hanno visto questi boschi nell’assedio? Quanti morti hanno visto le mie rive? Mille, duemila, cinquemila dice la voce della valle.
Sono il fiume Una, scorro come la vita nella valle che mi dà il nome, a cui do il nome a mia volta. E ci chiamiamo, io e la valle, per non dimenticare, ci si chiama, sempre, per non dimenticare. La terra e il cielo echeggiano il nome che portiamo e si mischia alla voce delle donne che piangono il lamento dei morti.
Il nome è la memoria, così la vita scorre a Bihac, come un nome che porta il peso del ricordo, una guerra quotidiana per ricordare e ricordare di dimenticare. I vecchi dicono che l’acqua curi la memoria. Do loro ragione, è verità. Ho memoria degli spari, dei cannoni e delle grida, memoria dei soldati da lontano, e memoria del buio, dei convogli bloccati dai serbi al confine della città, e della gente senza cibo, memoria degli anni senza elettricità e delle candele, quando la gente viveva nelle cantine, a nascondersi dai colpi negli anni dell’assedio, e consumavano la cera, tutti, per potersi guardare in faccia almeno per un po’. E io scorrevo lungo villaggi bui, di cui ero la sola acqua a lavare e purificare, la sola sebbene fredda, anche negli inverni rigidi.

E ho memoria della gioia, le bandiere bosniache nelle mani dei bambini, in fila, il giorno dopo la fine dell’oppressione, celebravano proprio qui, lungo i miei argini, giunti dal confine con la Croazia, attraverso la città di Cazin, tutti felici i bambini, e le donne radiose, anche le più stanche, anche quelle scese a valle dai villaggi di montagna, le bandiere sventolavano, e loro a cantare tutto il dolore vissuto, sva bol svijeta , e i colori della bandiera fluttuavano al sole, zastava bosanska , la bandiera bosniaca.
E le donne incoraggiavano le truppe dell’esercito bosniaco, e la guerra è finita - cantavano - e dove non è finita, finirà. E mangeremo ancora, mangeremo di nuovo, e le uniche che non gioivano erano le vedove, che non avevano più soldati da incoraggiare ma solo da piangere e anche le madri degli storpi e degli amputati, che la guerra è così, un gruppo di case a tre piani colpite nella metà di un pomeriggio qualsiasi, i bambini fuggiti al controllo dei genitori, un pallone. «Torna qui Hemid, tornate in cantina bambini», e poi i colpi e i bambini venuti giù come birilli. Cinque morti, undici feriti, sette amputati. E i bambini, i sopravvissuti intendo, li ho sempre pensati come fiori appassiti. «Siamo tornati al mondo - dicevano i più piccoli - ma il mondo non era così buono con noi. Perché?». Questo li ho ascoltati dire, più che dire, chiedere proprio a me, all’acqua dell’Una. Il mondo non era buono con noi, fiume Una. Perché?

E io scorrevo, senza rispondere. Testimone che può trascinare la memoria, e andare via. E loro, quando scendevano a valle, tutti, le donne con i bambini di nemmeno due anni che non avevano mai visto il sole, perché erano nati in una cantina e in una cantina avevano sempre vissuto, loro sorridevano, e non avevano più paura dei serbi, indossavano abiti consunti ma colorati.Larghi, tutti troppo larghi. Gioivano in migliaia, certo. Ma erano macilenti, gracili. Avevano ancora fame. La fame è un’altra forma della memoria. Come si ricorda la fame della guerra, meglio, come si dimentica la fame dell’assedio? Oggi, per esempio, non ci sono più cadaveri lungo le rive, a bagnarsi nelle mie acque però ci sono questi ragazzi che parlano lingue diverse, e battono i denti d’inverno, ragazzi nelle mie acque ghiacciate.Non hanno scarpe, e hanno gli abiti lisi come la gente di Bihac dopo la guerra. E come i reduci non hanno niente. I bosniaci, i sopravvissuti, avevano venduto quello che potevano per mangiare e scaldarsi, i giovani, i camminatori di oggi hanno venduto quello che potevano per fuggire, e sopravvivere.

Somigliano a quei lamenti del millenovecentonovantaquattro, i lamenti di questi giovani, se la memoria non mi inganna è l’inconfondibile suono della fame, e quando la valle è scura, anche se intorno certo l’elettricità è tornata, ma le colline e le montagne si ammantano di buio, ecco questi ragazzi battono i denti e vorrebbero mangiare, e i più giovani, i ragazzini, quando hanno paura dicono mamma. Che, ho capito scorrendo, in tutte le lingue ha lo stesso suono, inconfondibile, anche lui, come la fame.
Oggi non c’è sangue dei feriti della guerra sciolto nelle mie acque, non ci sono soldati e mogli a piangere ai piedi dell’Una, ma c’è sangue dei piedi di giovani camminatori, arrivano dal Pakistan, dall’Afghanistan, luoghi di altri alvei, altre onde, e altre acque, arrivano da altri ghiacciai e deserti, dall’Iraq e dalla Siria, e camminano per attraversare i confini, si arrampicano sulle montagne, il percorso inverso delle donne che festeggiavano dopo la fine dell’assedio. E tornano giù, da me, feriti anche loro, da un’altra guerra. La guerra del rifiuto. Lividi, contusioni e piedi viola, piedi da buttare, piedi morti di congelamento. Per le ore trascorse nei boschi, a giocare a dadi col destino di frontiera e scommettere di non morire.
Qualcuno piange qui, a riva. Piange le morti dei loro morti. Quelli lasciati nei boschi, morti di congelamento insieme ai loro piedi. I felici, di giorno, invece del sangue sciolgono tra le mie onde il sapone. E io scorro, e ho imparato che una mia onda ha per loro il sapore della dignità. Perché arrivano a me sporchi, e possono lavarsi. E anche loro, come i bambini scesi dalle valli nel millenovecentonovantaquattro, mi dicono, però in tante lingue diverse, Una, perché il mondo è cattivo con noi?
Anche il dottore, il dottore dell’ospedale di Bihac, doveva pulire e veniva a riempire le taniche qui da me, e mi diceva: «Una devo pulire il sangue», diceva, «Una ieri ci sono stati così tanti colpi che c’è voluta una giornata a scrostare le pareti e i pavimenti dal sangue dei feriti».
E mi calmavo alle parole del dottore, placatevi onde, portate rispetto ai morti, mischiatevi col piangere di chi non può fare niente se non accanirsi contro il sangue alle pareti.

Scorro in una valle che ha ferite aperte, scorro in una valle che è una ferita aperta. Vivo tra due rive che mi contengono, sono il mio letto e di me, dell’acqua dell’Una, sono il confine naturale. Ma l’acqua non si può fermare, quieta e rabbiosa, benefica o sinistra, lei va. Io vado, acqua dell’Una. Ogni giorno, come l’altro giorno, quando il ragazzo, l’afghano, Ahmed, che veniva sempre qui, a lavare la maglietta e i pantaloni, e già sei volte era tornato a valle dalle montagne al confine con la Croazia, livido e segnato, è giunto ancora qui, alle mie rive e si è tolto le ciabatte, ha guardato il cielo, ha fatto un salto e ha detto: ce la farò. Stavolta ce la farò. Con l’acqua ce la farò.
E si è tuffato. Ma non riusciva a galleggiare, Ahmed, i flutti l’hanno inghiottito, la corrente trascinato via. Mentre le sue gambe volteggiavano e la testa coperta dalla schiuma delle onde e mi pareva ridesse, come fosse vivo. Ho straripato le acque e la collera, io, Una, fiume della valle ferita.
Perché l’acqua ha memoria e non ha confini, come il sogno, destino dei giovani camminatori.