cultura
La mamma cucina e il papà lavora? Basta sessismo e pregiudizi nei libri di scuola
Ruoli senza stereotipi. Identità complesse. Sguardi diversi sulla Storia. Antologie e sussidiari devono oggi tenere conto di sensibilità nuove. Per una visione più aperta del mondo
Inciampare in un problema di matematica con qualche sfumatura sessista è un’esperienza disarmante ma non rara. Anche una situazione di partenza ovvia – la mamma che cucina o lava i piatti (mentre il papà è irreperibile) – salta all’occhio se si hanno lenti, non dico nuove, ma almeno un po’ “aggiornate”.
Stereotipi razzisti e schemi pregiudiziali di varia natura possono spuntare anche dove non dovrebbero e dove non li aspetti: nei libri di testo adottati a scuola. Vuoi perché vetusti, rispondenti cioè ai parametri di un mondo superato dagli eventi, vuoi perché in mano a esperti poco sensibili, il risultato può essere catastrofico. Liquidare la questione con i parametri – spesso un po’ grossolani – del politicamente corretto è facile, ma meno interessante di quanto sia invece interrogarsi su come rispondere, nel lavoro sui libri di scuola, alle «nuove sensibilità». O meglio – come mi suggerisce subito Vera Gheno, sociolinguista e saggista ora in libreria con la curatela di “Parole d’altro genere. Come le scrittrici hanno cambiato il mondo” (Rizzoli Bur) – a «soggettività sempre esistite, ma che non hanno mai avuto granché dignità di parola; che hanno sofferto di ingiustizia epistemica, ossia dell’idea di non poter essere produttrici di cultura».
Ecco il punto: un difetto dello sguardo. Comprensibile sul piano storico? Di sicuro. Accettabile nel presente? No. «La proposta di testi nelle scuole – continua Gheno, che sta lavorando a una nuova grammatica per il biennio delle superiori – dovrebbe maggiormente tenere conto della variabilità umana in termini di genere, ma anche di etnia, religione, disabilità, neurodiversità, cultura. Dove, se non a scuola, si può abituare la persona a tenere una postura cognitiva curiosa e non monolitica?». Domanda decisiva, obiettivamente. Non che la risposta concreta sia facile, ma sono spesso gli studenti e le studentesse a manifestare l’esigenza di sussidiari, antologie, perfino eserciziari meno convenzionali nella rappresentazione del mondo. Non si tratta, come vorrebbe la caricatura, solo di attivisti “woke”, i più attenti e operativi cioè rispetto alle ingiustizie sociali e politiche, o di araldi della “cancel culture”: no, si tratta di esseri umani con anagrafe nel ventunesimo secolo giustamente perplessi di fronte a una rappresentazione fin troppo parziale delle identità, delle relazioni, perfino della storia universale.
Gli strumenti sui banchi non possono che presentarsi più inclusivi, più duttili, più aperti: questo richiede ai curatori una maggiore attenzione nel disegno complessivo e nelle scelte. E accende una serie di interrogativi ulteriori: siamo sicuri di aver studiato fin qua la grammatica nell’unico modo possibile? Siamo sicuri che il cosiddetto “maschile sovraesteso” sia indiscutibile? Siamo sicuri che la letteratura proposta con una sproporzione così marcata a favore degli scrittori e a svantaggio delle scrittrici sia solo un “dato storico”? E ancora: siamo sicuri che il mondo su misura di “Wasp”, maschio bianco occidentale, sia una prospettiva incorreggibile?
Ecco: dove non siamo più sicuri, accade qualcosa. E al di là dei parametri – talvolta obiettivamente rigidi – definiti dai programmi ministeriali, dalle griglie di valutazione delle (parola che resta insopportabile) “competenze” e dalle prove di fine ciclo scolastico, c’è uno spazio largo e creativo per rompere schemi, rimodellare saperi, o anche più semplicemente: per cambiare punto di vista.
Se si tratta di letteratura, per esempio, che cosa succede? Ho avuto l’occasione di mettere a fuoco la questione lavorando all’antologia per il biennio delle superiori “L’infinito narrare”, redatta con Giusi Marchetta, Maria Rita Petrella e Massimo Recalcati e pubblicata da Feltrinelli, editore appena sbarcato nella scolastica.
Rispetto alla storia letteraria, condizionata dalle tappe cronologiche, un’antologia offre una maggiore libertà di scelta; e ricordo con un certo divertimento le ore passate a mettere sul tavolo brani di autori e autrici con cui si ha un qualche legame, a stilare interminabili liste di possibilità. Questo o quello? Chi buttiamo giù dalla torre? Fare l’elenco dei versi irrinunciabili, delle pagine del cuore è un piacevolissimo esercizio di memoria. Ma non basta.
Forse non sembra al primo sguardo, ma un’antologia può tradursi anche nella consegna di un’eredità emotiva prima che intellettuale. Ti passo Rodari e Wislawa Szymborska, Toni Morrison e Milo De Angelis. È importante che l’itinerario proposto aiuti chi studia a familiarizzare con i generi e le forme, ma è altrettanto decisivo che non si perda di vista un impatto immediato, “confidenziale” con i testi.
Per l’antologia “La seconda luna”, ideata da Alessandro Baricco e realizzata dalla Scuola Holden, è stata fatta la scelta radicale di alleggerire gli apparati (introduzioni, note) fino quasi al punto di farli scomparire. Il presupposto è coraggioso: se acquisti un romanzo in libreria, in effetti, la pagina è sgombra: c’è il testo e non quel sovraccarico di richiami, box e sottolineature che hanno reso negli ultimi due decenni la grafica di molti libri di scuola troppo calcata su quella del web.
Per “L’infinito narrare” abbiamo privilegiato in molte occasioni i racconti, le short story: così da offrire diverse esperienze di lettura integrale. Fare in modo che il giovanissimo lettore e la giovanissima lettrice mettano i piedi a mollo come si fa in piscina o al mare per sentire se l’acqua è fredda è essenziale; e in questo senso eliminare qualche soglia, qualche filtro, cappello o cornice di troppo può essere una buona strategia. E gli esercizi? La parte applicativa? «Credo che i libri di testo debbano scegliere i modelli didattici con maggiore consapevolezza», dice Simone Giusti, saggista e docente di didattica della letteratura a Siena: «Oggi gli esercizi sono troppi e frutto della stratificazione progressiva di paradigmi didattici in gran parte superati». E invoca il coraggio di ridurre gli apparati, rendendo esplicite le intenzioni.
Il rischio, nel complesso, è disorientare il primo interlocutore dei manuali, ovvero il docente. Non è una questione di conservatorismo o di culto della tradizione, ma in molti casi di semplice e radicata abitudine. Anche rimodellare il canone significa sfidare la routine: Giusti rammenta che dai testi di italiano passa «la responsabilità e la possibilità di scegliere quali aspetti della cultura rendere visibili alle nuove generazioni»: «Sono come fasci di luce che si accendono su specifici oggetti culturali, lasciandone nel buio tantissimi altri. È quindi ovvio che si chieda ai libri di non essere frutto di un unico sguardo e di moltiplicare le fonti di luce». Non sono in gioco solo le diverse sensibilità del “pubblico” studentesco («è necessario cercare di rendere conto della varietà dei temi, delle situazioni, dei personaggi e dei generi»); contano anche i codici, i generi, gli spazi meno esplorati: plurilinguismo, letteratura popolare, letteratura per l’infanzia. Come si comincia? «Recuperando bibliografie nuove da chi si occupa di narrazioni che non hanno trovato voce», propone Giusi Marchetta, scrittrice che lavora da anni sulla formazione dei nuovi lettori e che nel recente “Principesse” (Add) cerca di individuare nelle fiabe tradizionali le gabbie del sessismo e del razzismo che hanno condizionato l’immaginario per generazioni. Cercare autrici e autori non bianchi, non europei, «ma farlo a partire anche da studi prodotti non da bianchi europei», aprire le porte alla letteratura young adult e alla letteratura per l’infanzia di qualità per creare nuovi percorsi che siano veramente inclusivi e raccontino un mondo di differenze». Forse la parola chiave è proprio questa: differenza. Come difformità, segno di singolarità, eccentricità: in senso letterale.
Non c’è un’unica storia, non c’è un’unica prospettiva, non c’è e non è accettabile un’unica visione. La letteratura, anzi le letterature ci allenano a esplorare, attraverso l’immaginazione, la multiforme varietà dell’umano; e da questo punto di vista racconti e romanzi possono offrire un’alternativa vitale a stereotipi, etichettature grossolane, cristallizzazioni, modelli che si vogliono stabili e per fortuna non lo sono. È un’occasione straordinaria per leggere il mondo senza farsi ricattare dai luoghi comuni. E per risvegliare il cantastorie che è «nel profondo di ciascuno di noi». Così scrive Doris Lessing, Premio Nobel per la letteratura, nel brano con cui abbiamo scelto di aprire “L’infinito narrare”. Ci invita a immaginare – non è difficile – un mondo segnato dalle guerre, da calamità, da orrori, città devastate da alluvioni… «Il cantastorie ci sarà sempre, perché è la nostra immaginazione ciò che ci modella, che ci mantiene, che ci crea – nel bene e nel male. Sono le nostre storie che ci ricreano quando siamo lacerati, feriti, perfino distrutti. È il cantastorie, il creatore di sogni, il creatore di miti, che è la nostra fenice, che ci rappresenta al nostro meglio e nella nostra forma più creativa».