TERRORISMO E SEGRETI DI STATO
L’accusa dei giudici: una Gladio nera dietro la strage di Bologna. Paolo Bellini pedina di una centrale eversiva occulta
L’ultima sentenza svela il «livello superiore»: i terroristi di destra venivano «usati e coperti da ufficiali dei servizi manovrati dalla P2». Il neofascista condannato in primo grado per l’eccidio del 2 agosto 1980, è stato «protetto per tutta la sua carriera criminale», da killer nero a sicario della ‘ndrangheta. E i depistaggi continuano ancora
Perché una parte della destra non può dire la verità sulla strage di Bologna? Per quali motivi la premier Giorgia Meloni e altri esponenti di Fratelli d’Italia non hanno voluto riconoscere neppure dopo 43 anni, nel giorno della commemorazione delle 85 vittime, che l’eccidio del 2 agosto 1980 fu commesso da terroristi neofascisti? Come mai Marcello De Angelis, già vicecapo del gruppo armato Terza Posizione, oggi portavoce del presidente della Regione Lazio, continua a difendere non solo il cognato, Luigi Ciavardini, ma anche Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, i killer dei Nar, condannati in tutti i gradi di giudizio, che confessarono di aver ucciso perfino loro camerati?
Una risposta logica, non definitiva ma molto documentata, si può trovare nell’ultima sentenza sulla strage di Bologna. È il verdetto di 1.704 pagine che ha condannato all’ergastolo, in primo grado, Paolo Bellini, un criminale con una storia impressionante: negli anni del terrorismo era un killer neofascista, latitante in Italia con una falsa identità brasiliana, e nel ventennio successivo è diventato un sicario della ’ndrangheta, reo confesso di almeno undici omicidi, e un infiltrato dello Stato in Cosa Nostra.
Nelle motivazioni depositate tre mesi fa, i giudici concludono che Bellini fu «certamente» uno degli esecutori della strage, ma era «una pedina» che obbediva a «un livello superiore»: «una rete eversiva e occulta», più segreta di Gladio, composta da «militari ed esponenti dei servizi segreti deviati, che seguivano le direttive dei vertici della loggia P2». La ricostruzione giudiziaria fa luce per la prima volta anche sulle coperture politiche della latitanza di Bellini, prima e dopo la strage, che secondo la sentenza furono garantite da almeno tre parlamentari del Movimento sociale italiano (Msi): lo storico partito da cui sono nati An e poi FdI, che ne conserva il simbolo della fiamma tricolore. Per dirla in breve, la sentenza più completa sulla bomba alla stazione, dove si concentrano i risultati di 43 anni di indagini e processi, sembra un vaso di Pandora, che può spargere veleni anche nel pantheon della destra di oggi.
I giudici di Bologna documentano con dovizia di prove che il quinto neofascista condannato per la strage è stato protetto da apparati deviati dei servizi fin dal primo omicidio. Nel giugno 1975 a Reggio Emilia viene assassinato uno studente di sinistra, Alceste Campanile. Il depistaggio è immediato: già la mattina dopo, un fonogramma anonimo del Sid indirizza le indagini verso una falsa «pista rossa», interna a Lotta Continua. La velina dei servizi diffama la vittima, insinuando legami inesistenti con le Brigate rosse, e viene pure mostrata al padre, che per anni perseguita gli amici innocenti di suo figlio. L’omicidio viene confessato da Paolo Bellini, come killer neofascista di Avanguardia nazionale, più di trent’anni dopo, quando non è più punibile grazie alla prescrizione.
Bellini commette altri reati violenti, tra il 1974 e il 1976, per questioni personali e familiari: un tentato omicidio e due attentati esplosivi contro studi professionali, che lui stesso ricollega alla figura autoritaria del padre. Aldo Bellini, ex paracadutista, aveva «rapporti assidui con politici missini e ufficiali dei servizi», scrivono i giudici nella sentenza. Anche il figlio Paolo conferma che era legato a «militari di estrema destra» e a un loro referente politico, il senatore Franco Mariani, che lo mandarono anche all’estero, in nazioni controllate da dittature, a incontrare ufficiali dei servizi stranieri: missioni riservate che, a loro dire, venivano richieste dal leader storico del Msi, Giorgio Almirante. Bellini aggiunge che già in quel periodo il padre gli chiese più volte di entrare nei servizi, ma lui giura di aver rifiutato.
Ricercato dal 1976, Bellini riesce a scappare in Brasile, allora governato da un regime militare, dove viene registrato all'anagrafe di Rio De Janeiro con il falso nome di Roberto Da Silva, con una procedura assurda: una semplice autocertificazione, controfirmata da un altro neofascista italiano, anche lui in fuga con generalità fasulle. Quindi Bellini ottiene un vero passaporto brasiliano, intestato a Da Silva, e rientra in Italia, dove vive indisturbato per quattro anni, anche se è latitante. Nel 1977 viene ammesso all’aeroclub di Foligno e ottiene il brevetto di pilota. A presentarlo è il solito senatore Mariani, che fa intervenire un onorevole missino di Foligno, Stefano Menicacci: lo storico avvocato di Stefano Delle Chiaie, il leader di Avanguardia nazionale.
A raccomandare quel «brasiliano con l’accento reggiano» è un altro senatore del Msi, Antonio Cremisini. Dal 24 maggio 1978 Bellini inizia a trasportare in aereo anche un magistrato di alto rango, Ugo Sisti: il procuratore capo di Bologna.
A Foligno il finto Da Silva ottiene con procedure «anomale» una lunga serie di visti, permessi e addirittura il porto d’armi. L’avvocato Menicacci, sentito nell’ultimo processo, ha giurato di non aver mai sospettato che quel brasiliano fosse in realtà un latitante neofascista italiano, ma si è visto accusare di falsa testimonianza. A fine luglio Menicacci è finito pure agli arresti domiciliari, a 91 anni, con l’accusa di aver orchestrato altre false testimonianze a favore di Delle Chiaie, questa volta per ostacolare le nuove indagini siciliane sulle stragi mafiose del 1992-1993.
Per ricostruire «il livello superiore», i giudici trascrivono molti verbali e sentenze sui terroristi neri protetti dai servizi segreti, ma anche l’interrogatorio di un vecchio amico e socio di Bellini, l’antiquario Agostino Vallorani: «Paolo mi raccontò della sua appartenenza a uno strano e per me altamente pericoloso mondo dell’estrema destra. Mi disse che aveva fatto parte di gruppi incaricati, in caso di colpo di Stato, di prelevare dalle loro abitazioni i comunisti di Reggio Emilia per segregarli in uno stadio».
Il 2 agosto 1980 Bellini, ancora sotto falso nome, è in stazione a Bologna quando esplode la bomba: lui lo nega, ma è stato ripreso in un filmato, identificato dalle perizie e riconosciuto anche dall’ex moglie, che ha fatto crollare il suo alibi. All'alba del 4 agosto, due giorni dopo la strage, la polizia perquisisce l’albergo del padre Aldo, dove spunta il procuratore Sisti, che ha dormito lì, anche se l’hotel è chiuso. Con loro c’è l’avvocato di famiglia, che è nipote del senatore Mariani.
Ugo Sisti viene poi indagato per favoreggiamento, ma è prosciolto. Il magistrato si difende sostenendo che il suo amico Aldo gli nascose di avere un figlio latitante. E giura di non aver mai sospettato che fosse il suo pilota brasiliano. Oggi a smentirlo è lo stesso Paolo Bellini, che ai giudici racconta: «Una settimana dopo la strage, nell'agosto 1980, incontrai Sisti e mio padre, che mi chiesero di entrare nei servizi. Ma io non ve volli sapere».
Il procuratore aveva rapporti strettissimi con i vertici piduisti dei servizi segreti militari (Sismi). E ha organizzato almeno tre manovre per screditare le indagini sui neofascisti e accreditare «false piste internazionali», pochi giorni dopo un’identica richiesta rivolta personalmente dal capo della P2, Licio Gelli, a un ufficiale piduista dei servizi, che gli ha obbedito. Il 26 settembre 1980 Ugo Sisti viene nominato direttore del Dap, cioè capo delle carceri, dal dimissionario governo Cossiga. E in questa veste, nel maggio 1982, toglie al Sisde e assegna al Sismi l’autorizzazione a trattare in carcere con il boss della camorra, Raffaele Cutolo, per far liberare l’assessore democristiano Ciro Cirillo, rapito dalle Brigate rosse e poi rilasciato dopo il pagamento di un riscatto. Il generale che fu autorizzato da Sisti a trattare con il camorrista è il suo amico Pietro Musumeci, affiliato alla P2, poi condannato insieme con Gelli per i depistaggi di stampo terroristico del gennaio 1981.
Bellini viene arrestato il 15 febbraio 1981 a Pontassieve, con un complice, su un furgone carico di opere d'arte e mobili antichi, che risultano rubati in Toscana, ma resta in carcere sotto falso nome. Il 31 dicembre una fonte del Sisde rivela che il finto brasiliano è in realtà Bellini, ma la notizia viene dichiarata «segreto di Stato» e tenuta nascosta. Il neofascista viene smascherato solo nel marzo 1983, dopo l’ennesima copertura. Per accertarne l'identità, i carabinieri chiedono al distretto di Modena, dove Bellini ha fatto il militare, le sue impronte digitali, che però sono sparite dal fascicolo. Vengono ritrovate, nascoste in un cassetto, nell'ufficio di un colonnello dell'esercito. Che però non conosce Bellini, come evidenziano i giudici, per cui è logico pensare che abbia «obbedito a ordini superiori».
Scarcerato nel dicembre 1986, Bellini torna in cella nel gennaio 1988, con l'accusa di aver assassinato Giuseppe Fabbri, il fiorentino che era stato arrestato con lui a Pontassieve. L'antiquario Vallorani (che lo aveva conosciuto proprio tramite Fabbri) testimonia di aver misurato l'efficacia delle sue protezioni nel 1990, quando Bellini riuscì a farsi assolvere per quel delitto e per altri reati legati ai traffici di opere d'arte. Solo nel 1999, dopo l'arresto come sicario della 'ndrangheta, Bellini si accredita come pentito di mafia e a quel punto confessa anche l'omicidio di Fabbri, che resta comunque impunito, perché ormai era stato assolto in via definitiva.
Dall’aprile 1991 all’autunno 1992 Bellini si infiltra anche in Cosa Nostra, per conto di un maresciallo dei carabinieri (presentatogli da Vallorani) che cerca di recuperare opere d’arte rubate. In Sicilia incontra Antonino Gioè, un boss poi condannato per la strage di Capaci, che era stato in carcere a Sciacca insieme al falso «pilota brasiliano». Ed è Bellini proprio a suggerire a Cosa Nostra la strategia di attacco ai beni culturali, poi realizzata dalla mafia nel 1993, con gli attentati più misteriosi. Gioè muore in carcere il giorno dopo la strage di via Palestro, in un apparente suicidio molto anomalo, lasciando una lettera che definisce Bellini «un infiltrato dei servizi».
In quei mesi, mentre sembra lavorare per lo Stato, l’ex neofascista è già diventato un killer della ’ndrangheta. Scoperto e arrestato sette anni dopo, si accredita come pentito e confessa di aver commesso, dal 1990 al 1999, otto delitti, due tentati omicidi e un attentato esplosivo con decine di feriti in un bar di Reggio Emilia.
Oltre a Bellini, nella stazione di Bologna, alle 10.25 del 2 agosto 1980, c’era un altro latitante legato all'estrema destra, Sergio Picciafuoco, allora ricercato per furti e truffe. Ferito dalla bomba, si è fatto curare in ospedale sotto falso nome. Viene inquisito quando le indagini mostrano che ha mentito sulle ragioni della sua presenza in stazione (e sul mezzo usato per arrivarci) e che ha nascosto i suoi rapporti con Terza Posizione. Condannato in primo grado come possibile esecutore, viene poi assolto per insufficienza di prove, in via definitiva. Ora, nella nuova sentenza di Bologna, i giudici scrivono che quell'assoluzione fu un errore. Si fondava sulla presunta assenza di rapporti tra Picciafuoco, gli stragisti neofascisti e i servizi deviati che li proteggevano. Le nuove indagini hanno però documentato che quel latitante usava, anche a Bologna, un falso documento creato dai servizi segreti. Una carta d'identità con un nome particolare (Eraclio Vailati), che era stata fabbricata da un falsario di fiducia di due ufficiali piduisti (che per la sua bravura lo chiamavano in codice «Raffaello»).
Con quella e altre false identità, tutte legate ai servizi, Picciafuoco riuscì a farsi rilasciare in poche ore, per due volte, perfino dopo essere stato fermato a un posto di blocco in Alto Adige su un'auto rubata, mentre era latitante. I giudici di Bologna fanno notare che la carta d'identità di copertura usata da Picciafuoco faceva parte di un lotto di falsi documenti dei servizi, che furono distribuiti anche ad altri neofascisti di Terza Posizione, la stessa organizzazione del condannato Ciavardini.
Picciafuoco oggi risulta legato anche a una sigla nera (“Mia”) che organizzava attentati dinamitardi in Alto Adige. E ha avuto rapporti pericolosi e inconfessabili anche con Bellini. Il 12 ottobre 1990, da poco assolto, è andato a Reggio Emilia a chiedergli un pacco di soldi in contanti e una pistola, dicendogli: «Tu puoi farmela avere, perché sei uno dei servizi». Bellini ammette l’incontro, ma giura di averci litigato, urlandogli: «Sei tu il provocatore, sei tu che eri nel Mia».
I giudici concludono che entrambi erano legati ai servizi. Ed evidenziano, tra i tanti riscontri, un doppio indizio che li accomuna. Il 22 luglio 1980, dieci giorni prima della strage, Bellini fu bloccato in Svizzera con un apparato ricetrasmittente del tipo allora in uso a forze militari o servizi segreti, che per i civili era illegale, per cui gli sequestrato dalla polizia elvetica. Nel maggio precedente, anche Picciafuoco era stato fermato, in Alto Adige, con un apparecchio analogo, della stessa marca.
Sergio Picciafuoco è morto nel marzo 2022. Al processo ha negato tutto, perfino i suoi verbali passati. Ha ammesso però di essere diventato amico, in carcere, di Carlo Maria Maggi: il capo di Ordine Nuovo nel Triveneto, condannato come organizzatore della strage di Brescia insieme a uno degli esecutori, un neofascista che veniva pagato dai servizi come fonte.
Nel 1996, mentre era ai domiciliari, Maggi ha rivelato ai familiari cosa ha saputo sulla strage di Bologna: «Sono stati loro, Fioravanti e Mambro». E ha aggiunto che la bomba fu portata da un «aviere», figlio di «uno dei nostri». Per i giudici è un chiaro riferimento al «pilota» Bellini. Quando l’intercettazione viene trascritta a Bologna, però, la parola «aviere» scompare: diventa «corriere». Giudici e giurati, a quel punto, la riascoltano più volte: Maggi dice chiaramente «aviere». Quindi i tre periti ammettono di aver usato «un filtro» per «eliminare i rumori di fondo», che ha distorto «per errore» la parola cruciale. Ora la sentenza li accusa di falsa perizia.